A chi tocca?

Se si osserva con distacco e nel suo complesso la situazione della Sardegna, non solo appaiono in tutta la loro dimensione le nostre magagne e diventa evidente la loro natura strutturale, ma sorge spontanea la domanda sulle ragioni di tanta assurdità fatta storia.

Perché mai la Sardegna deve avere infrastrutture ferme al XIX secolo e un sistema dei trasporti in proporzione peggiore di quello di cento anni fa? In questi giorni, per esempio, si riparla di “continuità territoriale” (chiaramente – anche se implicitamente – riferendosi all’Italia, non all’Europa o al Mediterraneo, o al resto del mondo), e si proclamano scelte decisive, che nella loro sostanza non fanno che certificare la nostra dipendenza e la nostra subalternità: evidentemente ci sta bene così. Perché abbiamo un sistema scolastico e universitario in fase di smantellamento? Sono due pilastri portanti del nostro presente e del nostro futuro e li lasciamo distruggere senza darcene pensiero. Perché un’isola di 24 000 Km quadrati abitata da un milione e 700 mila esseri umani non riesce a soddisfare almeno in una misura consistente, se non autosufficiente, la propria  domanda agroalimentare interna? Come mai il nostro territorio ospita servitù di ogni genere – da quelle militari a quelle industriali, a quelle energetiche a quelle turistiche – a vantaggio di altri e a dispetto e in totale spregio delle esigenze delle popolazioni, della salvaguardia dell’ambiente, della salute dei cittadini e della nostra stessa capacità di generare da noi stessi il nostro benessere? E perché il nostro patrimonio storico-archeologico è tanto sottovalutato, abbandonato, sfregiato? È una risorsa immensa, su cui costruire cultura, economia, benessere. Perché dobbiamo tutte le estati piangere sulle migliaia di ettari devastate dagli incendi dolosi? Perché il brutto inutile tende a prevalere nelle scelte urbanistiche sul bello e sull’utile?

Le domande potrebbero continuare, ma è sulle possibili risposte che vorrei soffermarmi. Al contrario di quanto recitano i luoghi comuni su noi stessi, non esiste alcuna ragione concreta, storica, strutturale perché questi fenomeni degenerativi esistano e abbiano tale durata. La parola crisi accompagna la Sardegna sin dagli esordi della Modernità sull’Isola, ed è diventata quasi una descrizione standard della nostra condizione materiale sin dalla Restaurazione (1815). Il console francese in Sardegna nel 1816 notava con stupore le condizioni penose di una terra “al centro della civiltà europea” e ne attribuiva le responsabilità a Governo, feudalesimo e Chiesa. Oggi a chi o a cosa dovremmo attribuire la responsabilità di tanto assurdo impoverimento?

Prendersela con l’Italia è facile: un paese scalcinato, nato male e vissuto peggio, si trascina sull’orlo della dissoluzione con spensierato menefreghismo, con l’atteggiamento strafottente del guitto di provincia, dedito a campare alla giornata grazie agli imbrogli più comodi che gli vengano in mente, senza nemmeno sforzarsi di imbrogliare bene, con eleganza. Noi a questo paese votiamo da centocinquanta anni la nostra fede e la nostra speranza di sopravvivenza, sacrificando ad esso molte delle nostre migliori energie. E va bene, questo è un problema. Ma da chi dipende? Qual è la nostra parte nel gioco? Oltre a chiedere (se guardiamo i servizi dei tg nostrani, è facile constatare quanto i vari capipopolo o rappresentanti di categoria usino compulsivamente questo verbo), noi cosa diamo?

In un pezzo di qualche giorno fa Alessandro Mongili poneva alcune domande agli indipendentisti, considerandoli evidentemente degli interlocutori politici importanti. Parlava di una dipendenza da sconfiggere prima ancora che di una indipendenza da perseguire. Ovviamente i partiti e le varie sigle indipendentiste gli hanno risposto o gli risponderanno tramite i loro canali, se lo riterranno opportuno, direttamente o con i fatti. Personalmente però vorrei spostare un po’ il baricentro della questione.

Gli indipendentisti non esistono. Nel senso che sono dei cittadini come tutti, non una categoria sociale, né una componente antropologica specifica. Sono sardi, come tutti gli altri. E non esistono in quanto a peso politico determinante: non siedono nelle giunte e siedono raramente nei consigli di comuni, province e regione; non hanno posti di rilievo nei consigli di amministrazione di grandi enti o di grandi società private; non decidono nulla, né traggono dalla propria militanza alcun vantaggio da alcun punto di vista. Forse non sono loro l’interlocutore giusto, dunque.

L’interlocutore giusto sono i sardi. Tutti i sardi. Di dentro e di fuori, di nascita e di elezione. Tutti. Sono loro il soggetto collettivo e le soggettività individuali cui si deve chiedere conto di ciò che succede. I vincoli di dipendenza, la subalternità atavica, cruda, esplicita cui appariamo condannati è a loro che devono essere mostrati. Da loro, da tutti noi, si deve aspettare una presa di coscienza e scelte conseguenti. È il mio vicino di casa che spreca l’acqua, è mio cugino che getta immondizie sulla banchina della strada, è  mio cognato che cerca favori in cambio di voti, è l’assessore del mio paese che propone di svendere una parte del territorio al magnate forestiero di turno, è il sindacalista che tace sulle porcherie industriali, militari, turistiche pur di distribuire pochi posti di lavoro precari e malpagati, è il funzionario pubblico che non fa bene il suo lavoro, sono io quando tollero incuria e disonestà, quando mi indigno ma non mi impegno, quando sogno una California altrove, in un altrove qualsiasi, pur di non occuparmi del posto dove vivo. Siamo tutti noi coloro ai quali dobbiamo chiedere conto, sia per le azioni quotidiane minute, sia per i problemi macroscopici, sia  naturalmente per le scelte elettorali.

Le dipendenze si sconfiggono capillarmente, dal basso, non a botte di paternalismo. E non è compito degli indipendentisti, ma di tutti i sardi. Gli indipendentisti hanno solo capito che una delle dipendenze più gravose, causa o paravento di altre dipendenze più specifiche, è quella politica dallo stato italiano. Questo sì. Non ci sono “benaltrismi” che tengano, su questo punto, perché viviamo in un sistema chiuso, in cui ogni elemento condiziona gli altri. L’asservimento a specifici interessi esterni sarebbe più difficile senza l’asservimento “basilare” di un’intera collettività storica a un altro luogo e a un’altra storia.

Perciò tocca a noi, dal primo all’ultimo. Lasciamo stare le cause e le dimensioni della crisi attuale, lasciamo stare le comode scappatoie, le colpe altrui, i destini cinici e bari contro cui nulla si può. Dobbiamo attraversare il guado con le nostre forze, o all’altra riva non arriveremo mai. Non si scappa. Tocca a noi.