Lasciamo stare il passato più passato. Consideriamo questi ultimi 150 anni da “regione” italiana. Salta agli occhi la patologica e sistematica persistenza degli stessi identici problemi nei medesimi ambiti. Prendi un gazzettino di fine Ottocento e ti sembra di leggere un quotidiano di questi giorni: crisi nei traporti navali, crisi agricola, ricatto occupazionale, sfruttamento del territorio, crisi nel credito, militarizzazione, rivendicazioni cappello in mano alla corte del governo di turno, politici sardi proni nell’assecondare i propri mandanti italiani, mancanza di coesione sociale, assenza di identificazione collettiva.
Vogliamo davvero pensare che il problema della Sardegna sia Berlusconi? Be’, lo è di sicuro, ma purtroppo non è tutto “merito” suo. Ed è solo uno dei tanti. Cosa serve per convincerci che siamo arrivati al capolinea? Non è nemmeno detto che tra due anni esista ancora uno stato chiamato Italia o che, anche esistendo, corrisponda a ciò che conosciamo oggi, e qualcuno ancora ne invoca il patronato, la tutela, perché sennò noi poveri sardi dal cranio sbagliato precipiteremmo nella barbarie dalla cui oscurità siamo stati estratti dalla superiore e illuminata civiltà italiana. Che sindrome è? Deve essere qualcosa di grave, se persiste nonostante le abbondanti dosi di realtà contro cui stiamo sbattendo il grugno da decenni.
Lasciamo perdere i soloni autorazzisti fuori tempo massimo e teniamo pronte le mutande in ferrosmalto.