Accecati e perduti

Il caso del caro traghetti è entrato a fatica e in grave ritardo nell’agenda politica sarda, dando la stura a trionfalismi del tutto mal riposti (su idee scopiazzate, per altro) e persino a impeti nazionalisti alquanto incongrui. Il presidente della regione, ad esempio, dichiarava ieri di sperare di sentire presto sui traghetti da e per la Sardegna un po’ più di limba e un po’ meno dialetto napoletano. A parte che di solito di tratta di dialetto salernitano, la dichiarazione è abbastanza demagogica e razzista da commentarsi da sé. In ogni caso il momento di darsi una mossa è passato da almeno un mese, se non di più. Ora sono solo chiacchiere al vento, in piena campagna elettorale.

Ma fossero tutte qui le nequizie con cui ci tocca fare i conti, sarebbero rose e fiori. Molto meno pubblicizzata (anzi direi sostanzialmente rimossa dal mainstream mediatico e politico) la notizia dell’ennesimo ridimensionamento degli investimenti in infrastrutture nell’Isola da parte del governo italiano. Il che può indispettire e generare sentimenti di rivalsa sull’Italia, ma in fondo è perfettamente in linea con la prassi consolidata da molti decenni a questa parte, se non proprio da trecento anni in qua. Sfugge sempre il dato geografico della nostra lontananza dall’Italia e quello strutturale della modesta rilevanza territoriale e demografica della Sardegna nello stato italiano. C’è poco da girare: finché saremo una regione oltremarina e marginale di uno stato altro saremo appesi alla penuria di attenzioni e alle promesse mai mantenute da parte di un potere alieno.

Dovrebbero averlo imparato gli operai della Vinyls di Porto Torres, illusi che un poco di notorietà mediatica equivalesse a un successo sindacale, a dispetto della chiarissima prospettiva di chiusura dell’intero comparto industriale sardo. Quando la smetteranno di arrampicarsi e recludersi e magari di issare un improbabile tricolore (tipo captatio benevolentiae del tutto fuori luogo) magari cominceranno a realizzare che l’unica prospettiva possibile non è quella di continuare ad avvelenare sé stessi e la propria terra e vivere nella precarietà, ma ripulire tutto e progettare una sana, adeguata e dignitosa riconversione economica.

Ma anche gli altri non scherzano, con i loro patetici viaggi della speranza, in pellegrinaggio da via Roma a Roma (poca fantasia), vuoi fuori della porta del potere politico, vuoi in ginocchio al cospetto del papa. Non oso immaginare quale possa essere il prossimo stadio di auto-mortificazione a cui sapremo piegarci.

I sindacati, intanto, oscillanti come banderuole, se da un lato continuano a evocare – ripetitivi come un vecchio disco rotto – nuovi futuribili Piani di Rinascita, dall’altro pretendono niente meno che si violino le leggi per consentire all’ennesimo magnate del turismo di lusso di fare i suoi comodi (e curare i suoi interessi) a danno della collettività, con la motivazione di qualche posto di lavoro (temporaneo). Un po’ lo stesso refrain della avventura aurifera della Sardinia Gold Mining a Furtei. Anche lì, nonostante gli avvertimenti e le denunce di uno scempio inevitabile, i sindacati difesero a spada tratta il diritto degli australiani a sventrare e avvelenare il territorio, sempre in nome dell’occupazione (trenta posti di lavoro, sfumati nel giro di pochi anni).

Ma non dimentichiamoci l’entusiasmo con cui i sindacalisti della SARAS non più tardi dell’anno scorso, a pochi mesi dalla morte di tre operai negli impianti della stessa azienda, accolsero la gentile concessione da parte dei Moratti di alcuni biglietti per la finale di Champions League. Un altro spettacolo penoso di cui avremmo volentieri fatto a meno.

Non vedo lo stesso trasporto a proposito della questione trasporti (calembour scontato, pardon), settore dove i sindacati hanno brillato per l’impresentabile difesa della bufala aeroportuale di Fenosu ma non sembrano intenzionati alla minima, seria presa di posizione sulle potenzialità dei trasporti via mare, che da soli potrebbero mettere in moto una cosetta come tremila posti di lavoro, con un notevole indotto, anche in termini di ricerca e innovazione.

Sembra che da un lato si intenda perseverare nell’atteggiamento succube e subalterno del servo che chiede tutela al padrone e dall’altra si evitino con cura tutte le possibilità emancipative, economiche e politiche. Il che è facilmente spiegabile con la necessità di preservare lo stato di impoverimento indotto e di deprivazione culturale dei sardi, onde mantenere posti di intermediazione, di privilegio, possibilità di clientele e di scambi di favori. Ma quanti sardi traggono davvero vantaggio da tale sistema? Ipotizzo che siano una minoranza non troppo consistente. Minoranza che in tempi di vacche più magre del solito tende a ridursi.

Vedremo una prima risposta dell’opinione pubblica nel test elettorale di metà maggio. Ma le speranze di una radicale e repentina inversione di tendenza, nell’Isola del non senso, nella terra della disinformazione e della sistematica ignoranza di sé, sono poche. Speriamo almeno in un segnale.