Tempi di “riforme” universitarie e scolastiche, tempi di contestazioni. A molti sembra un déjà vu. In un certo senso lo è.
L’Italia, come compagine storica e politica, ha sempre nutrito e spesso messo in pratica l’avversione delle sue classi dominanti verso l’emancipazione sociale e culturale del proprio stesso popolo. A fasi alterne, con accelerazioni progressiste e lunghe fasi di ripiego conservatore – se non reazionario – la dinamica fondamentale è stata quella dell’esclusione. Oggi il ripiegamento classista e discriminatorio è reso più forte da una situazione di aspettative generali decrescenti, che obbligano chi detiene posizioni di vantaggio a difenderle e cristallizzarle. Questa dinamica sarebbe più evidente se il sistema di informazione non fosse in gran parte legato agli stessi strati sociali che vogliono conservare il proprio interesse specifico ai danni della collettività.
Tanto più tali scelte politiche si fanno sentire in Sardegna, in quanto mero oggetto di decisioni esterne, tra l’altro senza un proprio potere di interdizione e di negoziazione.
Sappiamo che la Sardegna soffre dei maggiori tassi di dispersione scolastica a livello europeo e del minor numero di laureati. Le varie operazioni finanziarie e il senso complessivo delle varie misure adottate nell’ultimo quindicennio in Italia su scuola e università fanno sì che questi dati tendano a peggiorare.
Il problema si presenta concretamente su diversi livelli.
A livello strutturale, la Sardegna non può aspettarsi che i suoi interessi collettivi e le sue necessità relative al capitale sociale, all’innalzamento del livello di istruzione e di consapevolezza collettiva siano curati dall’Italia. Non solo perché l’Italia non sembra in grado (e non intende) curarli nemmeno a livello generale, ma soprattutto perché in ogni caso le necessità sociali, culturali e anche economiche della Sardegna mal si adattano ad essere soddisfatte dall’esterno, per ragioni geografiche e storiche di tutta evidenza.
A livello politico, la Sardegna soffre di una assenza veramente ingombrante: quella di una vera classe dirigente che abbia come orizzonte di interesse e di intervento la Sardegna stessa. Questa mancanza di volontà politica è palese, mal mascherata dalle forme dell’autonomia, tra l’altro nemmeno fatte valere per il poco che valgono.
A livello culturale, la Sardegna paga e paga cara la propria subalternità culturale, che si riverbera nella totale passività del sistema di istruzione scolastica e universitaria ai dettami ministeriali italiani, a loro volta per propria intrinseca natura alieni alle necessità e agli interessi dei sardi. Pensiamo al depauperamento culturale, di competenze, di consapevolezza che comporta la dispersione o – quando va bene – la fuoriuscita dall’Isola di tante intelligenze e di tante energie creative. Pensiamo a quali agenti di deprivazione di se stessi siano state per i sardi scuola e università italiane. A cominciare dalla questione della lingua e a proseguire nella cancellazione di un orizzonte storico nostro.
Se le proteste di ricercatori e studenti sardi di questi giorni non si daranno un diverso ambito, una diversa prospettiva, in cui inserire le proprie aspettative, saranno del tutto sterili. Anche se a livello di stato italiano si producesse l’improbabile inversione di tendenza a favore dell’istruzione pubblica, degli investimenti nelle ricerca e nel buon funzionamento delle università, la Sardegna rimarrebbe in buona parte esclusa, marginale, subalterna in questo processo. E non per chissà quale persecuzione da parte di un potere “coloniale” ostile, ma per banalissime ragioni storiche, concrete, strutturali.
Una cosa è certa. Se la Sardegna non saprà appropriarsi politicamente e culturalmente degli strumenti del proprio sviluppo intellettuale, tecnico e creativo, se non saprà generare un proprio orizzonte di senso condiviso e generalizzato che ci veda al centro di questi processi sociali fondamentali, non supererà mai il proprio stadio di periferia insignificante in un mondo conflittuale e in fase di crisi sistemica.