Peli sulla lingua

Ancora una volta, a margine del dibattito su rinnovo dello statuto regionale e prospettive indipendentiste, è emersa la questione della lingua sarda. Per esempio in questo articolo di Alfonso Stiglitz, con relative polemiche al seguito.

Spauracchio per molti, comodo diversivo per moltissimi, per quanto se ne parli sempre, non sembra che in realtà la risoluzione della questione linguistica sia in cima alle priorità di qualcuno, in Sardegna. Se non altro, di qualcuno che abbia la possibilità di metterci mano concretamente. Ci sono altre questioni più urgenti, si dirà. Magari in un certo senso è anche vero. Ma quando mai in Sardegna non ci sono questioni più urgenti di qualcos’altro?

Perciò, facciamola riemergere, la vexata quaestio. A ben guardare, al di là delle polemiche strumentali, buone per autoerotismi intellettuali di qualche ego ipertrofico, ci si potrebbe anche intendere, una volta tanto. Basterebbe un poco di calma e di ragionevolezza, senza posizioni ideologiche precostituite, né sindromi da fortino assediato.

Per dire, alzi la mano chi non è favorevole all’ingresso del sardo nella scuola. Del sardo e delle altre lingue di Sardegna, naturalmente. Non dimentichiamo infatti che, a parte l’italiano (ormai unica lingua condivisa da tutti noi), ci sono ancora gallurese e sassarese, catalano di Alighera e tabarchino (antico pegliese) di Carloforte.

Ma i problemi sarebbero largamente superabili, semplicemente attingendo ai precetti della linguistica e della pedagogia contemporanee (non alla glottologia tedesca ottocentesca che domina l’accademia sarda). E ci vorrebbe uno sforzo politico per promuovere una standardizzazione grafica del sardo, in modo tale che possa discenderne una condivisione di metodi e di testi, almeno al livello di scuola secondaria e di università. Il che poi si tradurrebbe in un maggiore spazio sui mass media e nelle istituzioni. In questo senso, la polemica contro la LSC o qualsiasi altro tentativo di uniformazione grafica del sardo (per es. la proposta Bolognesi del 2005) è del tutto pretestuosa.

Esistono studi internazionali che sanciscono il vantaggio dato dal bilinguismo a livello cognitivo. Solo in Sardegna conoscere due (o più) lingue è peggio che conoscerne una sola (che deve essere per forza l’italiano, ovviamente). La stragrande maggioranza dei sardi alfabetizzati è alfabetizzata in italiano o al limite in altre lingue straniere. Questo ha un peso decisivo sia in campo comunicativo, sia in campo letterario. I sardi soffrono di una condizione di dilalia che sta marginalizzando le lingue locali fino a un punto di non ritorno. Il sardo stesso, benché ancora compreso dalla grande maggioranza dei sardi (almeno due terzi, pare, secondo le indagini più recenti), non è più l’elemento fondante di una intera semiosfera, ma solo una sorta di lingua ancestrale, sul punto di diventare un fossile culturale.

Ma le risorse cui attingere per far funzionare l’inserimento del sardo nel curriculum scolastico e nelle università – non solo e non tanto come ulteriore materia di studio, ma come lingua veicolare – sono a dir poco esigue e anche spese malissimo. Il che dipende molto dalla mediocrità di chi occupa ruoli decisionali in questo ambito, ma anche dalla inevitabile ostilità di un sistema scolastico, universitario e mediatico che dipende direttamente da centri di decisione, di gestione e di finanziamento non sardi.

Il nocciolo del problema dunque è politico. Ma è anche culturale. Finché si preferirà accarezzare il proprio ego piuttosto che mettersi a disposizione di un progetto comune, condiviso, e finché chi decide su queste cose sarà qualche mediocre subalterno di poteri estranei, attento ai propri privilegi personali o tribali piuttosto che ai beni collettivi, non ne usciremo affatto.

Saremo meno sardi per questo? Ovviamente no. Verrà compromesso il processo storico di emancipazione politica della Sardegna? Anche qui, direi proprio di no. Ma perché accettare passivamente questo destino? Perdere un patrimonio come un intero sistema linguistico non sarebbe una rinuncia da poco. Vale la pena di evitarla, finché siamo in tempo.