Mentre i sindacati manifestano a Oristano per invocare un nuovo Piano di Rinascita, a Ottana, una delle sedi della meravigliosa applicazione di quelli già realizzati, emergono drammaticamente i loro esiti ultimi. Una paradossale e mai così tempestiva smentita di ogni premessa e argomentazione a loro sostegno.
Nella notte, due attentati violenti e spietati contro la sede di una società che fornisce servizi sociali e contro l’abitazione del sindaco, Gian Paolo Marras.
Inutile qui e ora cercarne motivazioni e possibili colpevoli. Quel che possiamo mettere in evidenza è che una zona della Sardegna, sottoposta a operazioni di ingegneria sociale su vasta scala, usata come cavia da laboratorio politico e culturale, rigetta l’esperimento e traduce in forme patologiche le dosi di vaccino inoculate.
Un rigetto che ha molti sintomi e molte conseguenze. Di questi stessi giorni è l’annuncio da parte della ASL nuorese della necessità di una indagine igienico-sanitaria sulle condizioni della popolazione del paese e della zona circostante. Il sospetto, suffragato dai numeri, è che la maggiore incidenza di certe patologie tumorali sia da connettere con l’attività del polo industriale ivi impiantato negli anni Settanta del secolo appena trascorso.
Quella che doveva essere la ricetta giusta per distruggere dall’interno l’assetto sociale e culturale barbaricino, fondato su sistemi produttivi e distributivi considerati socialmente patogeni, ha generato invece ulteriore malessere, deprivazione materiale e culturale, disoccupazione, inquinamento, disarticolazione sociale.
Lo stesso sindaco Marras è un cassintegrato della Legler, l’ennesima azienda arrivata con mille promesse, sul vento dei finanziamenti erogati dalla regione sarda per le aree depresse, che ha concluso il suo ciclo produttivo portandosi via i finanziamenti ricevuti (che non c’è modo di chiedere indietro) e lasciando in eredità famiglie senza reddito.
Da notare che storicamente Ottana e il comprensorio di cui è stato a lungo capoluogo – se non altro putativo – non erano poveri. Non si tratta di una zona in cui per secoli è esistita una forma di economia di sussistenza, sempre in bilico sul precipizio della fame e della disperazione. Questa è la versione ideologica propalata per giustificare le assurde scelte fatte. Era invece una area agropastorale relativamente florida. Legata magari a cicli e processi non completamente toccati dai dispositivi economici e culturali della Modernità, ma certo non depressa né “fuori dal mondo”.
Alla radice dei fatti di cronaca di questi giorni c’è il profondo spaesamento, la dissoluzione di ogni senso del giusto e dell’ingiusto, che l’industrializzazione violenta ha portato con sé. Senza produrre alcun significativo progresso né sotto il profilo economico, né sotto quello culturale e sociale.
Che si pensi ancora di poter far valere le proprie ragioni con l’esplosivo o con i pallettoni, e proprio nel luogo simbolo della modernizzazione forzosa della Sardegna, è più di un segnale di crisi: è la conferma della scelta mortale, abortiva (per citare Camillo Bellieni) fatta a suo tempo e ancora invocata come soluzione da forze politiche e sindacati. A loro volta protagonisti terminali di un fallimento storico di cui non intendono rendere conto a nessuno, ma sul quale saranno presto chiamati a rispondere dalla storia stessa.