I recenti sviluppi giudiziari sull’operazione speculativa dell’eolico sardo evidenziano un intreccio allarmante tra affari, pratiche di dominio clientelare, denaro pubblico e partiti politici. Non che ci sia qualcosa di clamoroso di cui stupirsi. Ma fa un certo effetto che la Sardegna balzi agli onori delle cronache italiane per questioni di questa portata e – pare – di questa gravità.
Strano destino, quello di noi “italiani speciali”. Normalmente non contiamo nulla, col nostro misero 3% scarso del territorio statale italiano e della popolazione che vi risiede. Non contiamo niente quando lo stato deve restituirci i soldi delle nostre imposte (come da leggi italiane di rango costituzionale), né quando deve spendere soldi suoi (che poi sarebbero sempre nostri) per le infrastrutture. Però contiamo improvvisamente molto se c’è da occupare vaste aree da adibire a servitù militari, o se c’è da scegliere dove piazzare una bella centrale nucleare che nessuno vuole e magari un deposito unico di scorie (italiane e francesi).
In questo periodo, invece, si parla di noi per una cosa italianamente comune: corruzione, tentativi di condizionare le scelte politiche da parte di consorterie più o meno occulte, trame, relazioni pericolose tra finanza, criminalità più o meno organizzata, politica. Un segno di normalità, insomma. Di normalità italiana, appunto.
A noi renitenti all’assimilazione, però, non basta il sollievo illusorio offerto da questa cooptazione nell’eletta schiera degli italiani comuni. Non ci basta perché la nostra prospettiva non coincide con quella di chi ci vede come una propaggine proconsolare, una provincia d’oltremare di un’entità politica e culturale più ampia, forte e civile. Tanto meno ci piace essere una regione marginale e periferica di un’entità politica che di forte e civile sembra avere sempre meno.
Insomma, alla fine dei conti, da tutto ciò viene fuori in realtà che siamo due volte subalterni. Alla subalternità in qualche modo legittimata e giustificata da rapporti giuridici e di forza oggettivi e dalla impari contrapposizione di interessi non conciliabili si somma quella a interessi opachi, se non decisamente criminali, che della prima forma di subalternità si servono per il proprio tornaconto.
Magari non sarà la soluzione di tutti i nostri mali, ma eliminare appunto quel primo livello di subalternità eroderebbe le basi concrete di quest’altro, toglierebbe agli squali del malaffare l’acqua in cui muoversi a proprio piacimento.
Tuttavia, contrariamente a come sostengono alcuni, non basterà di certo liberarsi di una giunta regionale e di un presidente impresentabili (al di là delle responsabilità penali che eventualmente emergeranno) per liberarci dell’intero problema. La faccenda andrebbe risolta alla radice.