La questione storiografica dell’autonomia

(Pubblicato sul num. 26 di “Sardegna Mediterranea”, ottobre 2009)


Introduzione
Il 28 aprile di ogni anno in Sardegna si celebra la ricorrenza denominata “Die de sa Sardigna”. Prendendo spunto dal moto popolare che spinse i funzionari piemontesi a lasciare l’isola nella primavera del 1794, i sardi nell’occasione dovrebbero celebrare la propria qualità di “popolo”. L’altra denominazione della ricorrenza, infatti, secondo la legge istitutiva (L.R. 44/93), è – in italiano – “Giornata del popolo sardo”.
Nei discorsi ufficiali e sui media, in tali circostanze si fa usualmente riferimento a pretesi valori dell’autonomia tipici del popolo sardo e ad una loro “storia” che sarebbe auspicabile far conoscere ai giovani. Cosa significa? Di quali valori si tratta? E perché sono dati così per acquisiti da definirli “propri del popolo sardo”?
Qui si evidenzia un problema tanto metodologico quanto contenutistico. In generale, l’utilizzo del termine “autonomia” e “autonomismo” è così diffuso che appare sempre meno significativo. Ma cosa ci sia dentro e dietro questi termini abusati nessuno sembra chiederselo. Il problema ha molti risvolti e può essere affrontato da punti di partenza diversi. Visto che alla “storia” si fa riferimento, proverei ad impostarlo in termini storici.

L’Autonomia nella storia
Una prassi storiografica consolidata tende ad attribuire valori autonomisti a quasi tutti gli avvenimenti e i processi emancipativi o rivendicativi della storia dei sardi degli ultimi seicento anni. Chiunque segua il dibattito storico sardo e la miriade di eventi culturali che lo riguardano può testimoniare che persino in occasione di convegni dedicati alla figura di Eleonora d’Arborea la si qualifica come “eroina” dell’autonomia sarda. Per non parlare ovviamente di eventi successivi: dai conflitti tra conventicole aristocratiche che sfociarono nell’omicidio del marchese di Laconi prima e del viceré Camarassa poi, nel 1668, ai moti rivoluzionari degli anni 1794-1812 ed alla figura di Giovanni Maria Angioy, e così via risalendo lungo il corso del tempo fino alle imprese della Brigata Sassari e alla fondazione del Partito Sardo d’Azione.
Ma è corretto attribuire a tali eventi, ed ai processi politici, sociali ed economici ad essi sottesi, un significato “autonomista”? Quando nasce l’idea autonomista e quando si afferma nel panorama politico e intellettuale sardo? Quali fondamenti storico/culturali possiede? E in che termini viene declinata nel corso del tempo e le si dà realizzazione storica?
L’autonomia sarda ha una storia abbastanza breve, certamente non riconducibile all’epoca giudicale, né al periodo spagnolo del Regno di Sardegna (Birocchi, in Berlinguer – Mattone, 1998, p. 133 e segg.). Una data che si può prendere, con una approssimazione accettabile, come punto di partenza è il fatidico 1847, anno della così detta Unione perfetta con gli Stati di Terraferma. Cosa accadde è ben noto: l’élite burocratica e intellettuale sarda pretese e ottenne che venissero abolite le istituzioni proprie del Regno di Sardegna e l’Isola fosse accomunata agli altri possedimenti sabaudi sotto un unico ordinamento giuridico comune. Il che, salutato all’inizio con gratitudine come un segnale di progresso e di emancipazione, fu quasi subito fonte di scontento proprio presso quegli stessi intellettuali sardi che ne avevano perorato la causa (per esempio Giovanni Siotto Pintor: cfr. Plaisant, in Brigaglia – Mastino – Ortu, 2002, p. 60 e segg.). Altri, come Federico Fenu, si schierarono esplicitamente su una posizione ostile a qualsiasi fusione, rivendicando per l’Isola il mantenimento di istituzioni proprie, sebbene aggiornate agli orientamenti giuridici e politici contemporanei (Birocchi, in Berlinguer – Mattone, 1998, p. 148).
Della seconda metà dell’Ottocento è dunque la prima comparsa del pensiero autonomista sardo, i cui esponenti di punta furono G.B. Tuveri e G. Asproni. A un sentimento fortemente anti-piemontese, chiaramente presente in alcuni (gli stessi Tuveri e Asproni su tutti), si univano riflessioni giuridico-filosofiche ed esperienze istituzionali che conducevano alla conclusione di una necessità storica abbastanza chiara: una forma di autogoverno locale all’interno di un contesto statuale più ampio. Si trattava dell’applicazione in salsa sarda delle idee federaliste ben presenti nel dibattito politico del tempo (Cattaneo, Gioberti), dibattito relativo ai processi di unificazione dello stato italiano.
In Sardegna, il sostrato culturale e simbolico di tali aspirazioni era stato creato da decenni di lavorio intellettuale, portato avanti spesso da figure che avevano il doppio ruolo di elaboratori teorici e di funzionari statali (i vari Vittorio Angius, Giuseppe Manno, Pietro Martini, Giovanni Spano, Pasquale Tola, ecc.). L’opera di questi intellettuali tendeva a promuovere la riscoperta della storia e della cultura della Sardegna, configurandola come lasciapassare per una legittimazione paritaria rispetto alle altre componenti istituzionali e storiche del regno sabaudo.
Prendiamo come esempio Vittorio Angius, estensore delle voci sarde del Dizionario del Casalis[1]. Egli, fervente ammiratore di Eleonora di Arborea ed esaltatore della nazione sarda, era nel contempo un fedelissimo di Casa Savoia, autore tra le altre cose dell’inno Cunservet Deus su Re[2] (considerato l’inno nazionale del Regno di Sardegna e più tardi rimasto come inno della casata sabauda). I due sentimenti di appartenenza, declinati in forma storico-letteraria nei suoi numerosi scritti, convivevano senza attriti nell’animo dell’Angius, così come convivevano nell’animo e nelle opere di tutti o quasi tutti i protagonisti di questa rinascita intellettuale ottocentesca.
Tuttavia, già nell’ultimo quarto del medesimo secolo, usciti di scena per ragioni anagrafiche i principali esponenti del  primo autonomismo, l’atmosfera politico/intellettuale sarda era mutata. Alle evidenti carenze economiche, demografiche, sociali dell’Isola, il governo centrale rispondeva con pletoriche commissioni d’inchiesta parlamentare: quella presieduta De Pretis, tra 1868 e 1871; quella coordinata da Salaris, nel 1885; quella ben nota e citata di F. Pais-Serra, condotta su incarico dello stesso capo del governo Francesco Crispi, tra 1894 e 1896. Inchieste dai risultati a volte discutibili, in ogni caso senza conseguenze concrete. Così, mentre l’economista Giuseppe Todde proponeva di attribuire alla Sardegna una sorta di autogoverno per il periodo di un ventennio (al fine di renderne risolubili i problemi attraverso un regime economico-politico liberale e aperto, staccato dagli interessi e dalle decisioni del governo centrale), in realtà i problemi sardi venivano ancora una volta sottomessi a decisioni calate dall’alto (approccio top-down), che ne sancivano la subalternità rispetto agli interessi generali del giovane stato italiano (per esempio in occasione della denuncia dei trattati commerciali con la Francia, che condusse ad una profonda crisi del comparto agro-alimentare sardo negli anni Ottanta del secolo[3]). Come estrema misura, si ricorreva poi alla repressione militare. Così accadde nel 1899, con la famosa “Caccia Grossa”; così in occasione delle proteste dei lavoratori delle miniere a Buggerru nel 1904; così ancora in occasione dei moti di protesta popolare per il rincaro del pane, scoppiati a Cagliari e poi estesi a molte zone dell’Isola, nel 1906 (Brigaglia, in Brigaglia – Mastino – Ortu, 2002, pp. 110-4).
In questo periodo la scena politica sarda era egemonizzata dalla figura di Francesco Cocco-Ortu, parlamentare di lungo corso e più volte ministro. Alle aspirazioni di tipo autonomista si sostituiva, con Cocco-Ortu, l’impostazione clientelare, il ruolo di mediazione di favori e concessioni da parte del governo centrale svolto dalla classe politica locale. Le contemporanee manifestazioni di insofferenza (come visto, soffocate manu militari), acquisivano tratti più radicali rispetto alle elaborazioni teoriche autonomiste ottocentesche, tanto da rendere popolare presso i manifestanti la parola d’ordine di “fuori i continentali”, esplicito appello alla separazione politica dall’Italia.
A tale fermento pose fine drammaticamente la Prima guerra mondiale. Dalle cui esperienze, tuttavia, riemerse in modo carsico (è proprio il caso di dirlo), quella congerie di pulsioni pre-politiche e di elaborazioni intellettuali più meditate che il conflitto aveva interrotto, e che adesso trovavano nuova linfa nella maggiore consapevolezza identitaria maturata dai reduci dal fronte.
Già negli anni della guerra era ricomparsa nella pubblicistica politica e di protesta la parola “autonomia” (Brigaglia, in Brigaglia – Mastino – Ortu, 2002, p. 116). La fecero propria i leader dei reduci, ormai divenuti movimento politico a tutti gli effetti. Camillo Bellieni ed Emilio Lussu, insieme ad altri, traghettarono poi il movimento dei reduci verso una forma partitica organizzata: il Partito Sardo d’Azione (1921).
Benché la congerie di aspirazioni, pulsioni, aspettative e simboli che formavano l’apparato ideale del nuovo soggetto politico fosse di natura eterogenea e rispecchiasse tanto problemi di lungo corso quanto questioni contingenti, l’orizzonte in cui l’azione del partito venne iscritta fu da subito e chiaramente quella appunto dell’autonomia. Nonostante gran parte della base non facesse distinzioni troppo sottili e anzi fosse più propensa al “separatismo”, i due leader principali dichiararono a più riprese e in diversi contesti la loro ostilità verso la sola idea che la Sardegna si rendesse indipendente dall’Italia (Bellieni, Il pericolo separatista, 1922, cit. in Sedda, 2007, p. 175; Lussu, discorso alla Camera del 9 dicembre 1921, cit. in Fiori, 1985, p. 111).
L’avvento del fascismo decretò la fine della stagione autonomista, ma non delle idee autonomiste. Le quali ripresero immediatamente vigore non appena si aprirono nuovamente sull’Isola spazi di libertà politica (ossia subito dopo il settembre 1943). Anche in questo caso, tuttavia, le aspettative della base sardista erano di stampo nettamente favorevole all’indipendenza (Cubeddu, 1995, pp. 668-70; Sedda, 2003, pp. 102-4). Fu lo stesso Emilio Lussu a incanalarne le forze verso posizioni più moderate, che non mettessero in discussione il legame con l’Italia (Fiori, 1985, p. 371; Cardia, in Berlinguer – Mattone, 1998, pp. 720-1). Il “separatismo” era definito come una malattia, “un serpente marino”, dallo stesso Lussu[4]. Nel contempo, l’idea autonomista prendeva piede, in varie forme e in varia misura, in quasi tutti i partiti usciti dalla clandestinità dopo la caduta del fascismo (luglio 1943) e tornati all’attività politica dopo l’uscita dell’Isola dal conflitto attivo (settembre 1943).
Tali posizioni autonomiste, variamente declinate, furono dunque trasferite nella Consulta regionale, istituita alla fine del 1944 e formata dai rappresentanti dei partiti democratici. Dall’elaborazione della Consulta regionale nacque il testo dello statuto che avrebbe regolato le sorti giuridiche della Sardegna nel contesto dello stato italiano post-bellico e post-fascista. Lo statuto, come si sa, fu approvato nella veste di legge costituzionale all’ultimo momento utile per poter essere ammesso nell’ordinamento giuridico italiano (Brigaglia, 2002, cit., p. 134). Suscitando per altro la contestazione dello stesso Emilio Lussu, che ne disconobbe la paternità. Reazione dovuta ai limiti evidenti di uno statuto nato debole e concepito in termini conservativi e subalterni. Lussu sancì tale sua posizione polemica con l’abbandono del Partito Sardo d’Azione e l’adesione al Partito Socialista (Fiori, 1985, p. 375).
In ogni caso, i giochi a quel punto erano fatti. Con la consacrazione della Sardegna a regione autonoma o “a statuto speciale”, si escludeva in via di diritto e in via di fatto qualsiasi possibile alternativa politica. L’ipotesi federalista e quella indipendentista su tutte, pure ben presenti nel dibattito e, da quel momento, a lungo relegate nel dimenticatoio, come se non fossero mai esistite. Alla fine, quell’idea che, da Tuveri in su, aveva sollecitato le riflessioni e le speranze di molta parte del ceto politico-intellettuale sardo tra Otto e Novecento, trovava la sua conclusione istituzionale nell’alveo del nuovo assetto repubblicano italiano. Non senza lasciare il dubbio di un tradimento storico.

L’Autonomia oggi
L’autonomia è una condizione giuridico-istituzionale che pone la Sardegna come “regione” dello Stato italiano cui vengono riconosciute speciali condizioni e facoltà. In particolare, nell’ordinamento costituzionale vigente, all’istituto autonomistico sono da ricondurre maggiori potestà legislative “esclusive”, rispetto a quelle riconosciute in capo alle regioni “ordinarie”. E’ contemplata, cioè, una serie di materie in cui la regione speciale ha facoltà normativa propria, non dipendente dal potere legislativo statale. Tale potere legislativo “speciale”, tuttavia, è attenuato sia dall’aumentata facoltà legislativa delle regioni “ordinarie” (specie con la riforma costituzionale del 2001[5]), sia dalla possibilità lasciata al Governo centrale di impugnare gli atti e le deliberazioni regionali davanti alla Corte costituzionale (come, nel caso della Sardegna, è avvenuto in innumerevoli casi). Inoltre, la pur larga partecipazione della regione autonoma alle entrate fiscali riscosse sul suo territorio[6], non configura un potere impositivo proprio e, per di più, nel caso della Sardegna, soffre di una larga disapplicazione delle norme statutarie in materia (pure, di rango costituzionale), con la conseguenza che attualmente (2009) lo Stato risulta debitore verso l’Isola di diversi miliardi di euro[7]. Sia in linea di principio, sia in linea di diritto e ancor più in linea di fatto, l’autonomia regionale rimane dunque un regime di subalternità. Qualsiasi facoltà esercitata in proprio dalla regione trae validità dall’ordinamento giuridico generale dello Stato e da una sovranità “esterna”, di cui i sardi non godono in proprio. Senza considerare che, nell’ambito giuridico dell’ordinamento statale italiano, entrano pesantemente in gioco anche fattori geografici, dimensioni demografiche, forza economica e vicinanza ai centri di potere di fatto. Per di più, i limiti oggettivi dell’istituto autonomistico, in Sardegna sono stati storicamente accentuati dall’azione di classi dirigenti miopi o tributarie verso interessi particolari o esterni all’Isola. In definitiva, si tratta di un’”autonomia di facciata” (Hepburn, 2008).
Un chiaro sintomo di tale problematica realizzazione politica è proprio il dibattito, ormai pluri-decennale, relativo alla  attuazione pratica dell’autonomia e il continuo richiamo all’esigenza di una revisione statutaria.
L’evidenza di un perenne stato di crisi economica, sociale e culturale, solo di rado attenuata da momenti contingenti di minor debolezza, rende impellente una riflessione seria sull’autonomia, sulle sue ricadute concrete, in termini economici e culturali, e sulle sue possibili alternative politiche. Andrebbero valutate più accuratamente, anche nei loro risvolti culturali e simbolici, le dinamiche e le scelte che hanno condotto a privilegiare una soluzione debole in partenza e a mantenerla in uno stato di durevole depotenziamento politico. Andrebbe ripreso in mano l’intero discorso relativo all’identità come idolo intoccabile, usato come una patina opaca atta a rendere poco chiare le dinamiche economiche e politiche su cui viene applicata. Andrebbe rivalutata la latente e sempre accantonata questione della sovranità. Dovrebbero essere messi in chiaro una volta per tutte i limiti strutturali del rapporto diseguale (inevitabilmente diseguale) tra Italia e Sardegna e la loro radice geografica, storica e culturale.
L’impressione è, tuttavia, che questa necessità tanto evidente non trovi risposta nell’ambito accademico e intellettuale sardo, troppo vincolato a criteri di selezione autoreferenziali e all’adesione al principio di autorità. La produzione storiografica sarda è ancora troppo limitata da carenze e lacune evidenti. Mancano del tutto o sono fortemente limitati e privi dell’indispensabile aggiornamento ambiti disciplinari che farebbero comodo alla ricostruzione storica, in una visuale interdisciplinare (linguistica contemporanea, psicologia sociale, storia economica, storia delle istituzioni politiche, demografia, sociologia, antropologia culturale, filosofia, semiotica, ecc.).
In questo quadro lacunoso e metodologicamente debole si iscrive la perdurante e comoda versione autonomista della nostra storia recente e meno recente. L’autonomia è espressamente o implicitamente assunta come unico possibile orizzonte politico in cui iscrivere il sempre atteso “riscatto” del “popolo sardo” e come sola legittima chiave interpretativa storica[8].

Conclusione
Cosa rispondere dunque ai quesiti iniziali? Sulla base della disamina che precede, i “valori dell’autonomia” non sembrerebbero poi così connaturati al popolo sardo come dichiarato nella delibera regionale da cui abbiamo preso le mosse. Si tratta di posizioni politiche la cui genesi storica e il cui contenuto politico sono molto meno “originari” e molto più contingenti di quanto solitamente si voglia far apparire. La loro natura, evidente alla luce della genesi storica dell’autonomia regionale sarda, lungi dal rappresentare l’incarnazione di una visione prospettica, dalle radici lontane e rivolta al futuro, è di tipo prettamente rivendicazionista: consiste fondamentalmente nel chiedere allo stato centrale maggiori attenzioni e risorse per la Sardegna, in nome del sacrificio dei sardi per l’Italia (Cardia, 1998, cit., pp. 765-6). Tale declinazione politica del concetto autonomista, proclamata come fondante dai padri dell’autonomia sarda Bellieni e Lussu, è ancora oggi quella prevalente, tanto nel discorso pubblico e istituzionale, quanto nelle azioni dei governanti locali dell’Isola.
Tuttavia, ciò non giustifica l’adesione acritica a tale posizione ideologica da parte della scuola, dei mass-media e della storiografia accademica.
E’ una questione che attiene non solo alla libertà e alla correttezza scientifica, ma anche all’impostazione di un nuovo, più completo e maturo, processo di identificazione collettiva.

Note

1. G.Casalis, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino, 1855

2. Titolo orig.: Himnu sardu nationale. Il testo recita così: Cunservet Deus su Re/Salvet su Regnu sardu/E gloria a s’Istendardu/Cuncedat de su Re//Chi manchet in nois s’animu/chi languat su valore/Pro fortza o pro terore/No apas susettu o Re.

3. La Francia era allora lo sbocco principale della produzione vinicola e casearia sarda. La chiusura di tale canale commerciale ebbe effetti immediati e drammatici, favorendo lo spopolamento delle campagne a vantaggio della pastorizia errante e la crescita del comparto minerario, che si giovò di una vasta disponibilità di manodopera a bassissimo costo.

4. E. Lussu, Autonomia, non separatismo, in “Il Solco”, 20 maggio 1945; cit. in: Cardia, 1998, cit. pag. 720.

5. Legge Costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3: Modifiche al Titolo V della II Parte della Costituzione.

6. In Sardegna, i sette decimi delle imposte sul reddito, i nove decimi delle imposte di bollo, una percentuale variabile dell’IVA, ecc.; art. 8 dello Statuto regionale.

7. Si tratta della famosa “vertenza entrate”, di cui tanto si è parlato sui mass-media in questi anni, ma ancora ampiamente irrisolta.

8. Un esempio: a proposito di “autonomia”, “lo storico può parlare di un’utopia ‘realistica’, alla cui funzione davvero conviene credere” (I. Birocchi, 1998, cit., pag. 199).

Bibliografia
AAVV. (a cura di L. Berlinguer e A. Mattone), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Torino, Einaudi, 1998
Brigaglia M. – Mastino A. – Ortu G.G., Storia della Sardegna 2. dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2002
Cubeddu S., Sardisti. Viaggio nel Partito Sardo d’Azione tra cronaca e storia. Volume I (1919-1948), Sassari, EDES, 1993
Id., Sardisti. Viaggio nel Partito Sardo d’Azione tra cronaca e storia. 1948-1968, Sassari, EDES, 1995
Fiori G., Vita di Antonio Gramsci, Roma-Bari, Laterza, 1966
Id., Il cavaliere dei rossomori. Vita di Emilio Lussu, Torino, Einaudi, 1985
Hepburn E.,  The Rise and Fall of a Europe of the Regions, “Regional & Federal Studies”, 18, 2008, pp. 537-555
Le Lannou M., Pastori e contadini di Sardegna, Cagliari, Della Torre, 1979
Sedda F., Tradurre la tradizione. Sardegna, su ballu, i corpi, la cultura, Roma, Meltemi, 2003
Id., La vera storia della bandiera dei sardi, Cagliari, Condaghes, 2007
Sotgiu G., Storia della Sardegna dopo l’Unità, Roma-Bari, Laterza, 1986
Id., La Sardegna dalla Grande Guerra al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1990
Id., La Sardegna negli anni della Repubblica. Storia critica dell’autonomia, Roma-Bari, Laterza, 1996