La crisi non esiste

Crisi, etimologicamente parlando, non è una parola dall’accezione prettamente negativa. Indica un momento o uno stato in cui esistono almeno due possibilità. Ha la stessa radice di crinale, di critica, ecc. Eppure è un termine ormai entrato nell’uso e profondamente radicato nell’immaginario collettivo come sinonimo di problemi, solitamente grossi. Un vero feticcio mediatico, in gran spolvero di questi tempi.

In Sardegna non riscuote grande successo, solo per la circostanza che noi – fortunati che siamo! – in crisi siamo sempre stati. Intere generazioni si sono consumate dentro la nostra perenne crisi. Si nasce e si vive per tutta la vita entro questo strano orizzonte precario ma in apparenza così evidente.

Ma sappiamo veramente cosa diavolo sia questa crisi? Qualcuno si è mai preso la briga di indagarne le radici materiali, politiche, storiche? Possiede un referente concreto questo lessema, o si tratta di un puro segno, una formula retorica, un trucco da neo-lingua?

Be’, per farci un’idea, prenderei in considerazione le vicende del comparto industriale sardo, di stretta attualità proprio in questo periodo. Leggiamo qui di seguito una rapida sintesi della situazione (tratta dal giornale Il Fatto quotidiano di oggi, 24 novembre 2009):

Da Alcoa a Porto Torres, proteste estreme degli operai

di Gigi Furini

Una nave fermata mentre sta per scaricare carbone, un’auto data alle fiamme, la centrale Enel bloccata. Sale la tensione a Portovesme, un sindacalista ammette: “Sta succedendo quello che temevamo. Non riusciamo più a controllare gli operai”. Sono parole di Roberto Ballocco, rappresentante della Rrb dell’Alcoa.

Il blitz degli operai è scattato nella notte fra domenica e lunedì. I lavoratori si sono trovati al porto di Portovesme e hanno impedito che da una nave si scaricasse carbone per la vicina centrale Enel. Quindi hanno discusso con un dirigente e alle 2,30 se ne sono andati. Poco dopo un’auto è stata data alle fiamme. I lavoratori, con le loro famiglie e i sindaci della zona, partono domani per Roma dove giovedì ci sarà l’incontro decisivo con il ministro Scajola. In ballo ci sono 100 milioni di euro di energia elettrica, la differenza fra il prezzo a tariffa piena e quanto Alcoa è disposta a spendere. Toccherà al governo fare il primo passo. Alcoa, il gigante dell’alluminio, per l’impianto di Portovesme dovrebbe spendere 500 mila euro di corrente al giorno, una cifra che manderebbe in rosso i conti. L’altroieri l’Autorità per l’energia e il gas ha approvato due delibere che consentono alle aziende energivore (come Alcoa) di acquistare quote di corrente elettrica all’estero.

(…)Dall’alluminio alla chimica. Sempre in Sardegna, a Porto Torres, sono in sciopero della fame i 101 lavoratori della Vinyls (produzione di pvc) messi in cassa integrazione straordinaria. Un gruppo di operai è anche asserragliato su un terrazzo al sesto piano dell’impianto.

Niente male come situazione. Ma non nuova, in Sardegna. È almeno dai tempi dello sciagurato primo Piano di Rinascita (L. 588 del 1962), che si ripropongono situazioni analoghe. Grosse industrie, di solito molto inquinanti e/o pericolose, in cerca di aree disponibili ad accoglierle, spudorate speculazioni, soldi pubblici che si volatilizzano e poi chiusure e drammi sociali. Ma qualcuno che ci guadagna c’è sempre.

a) Intanto le aziende, per lo più appartenenti a grosse società multinazionali, spesso con sedi fiscali esterne all’Isola. Possono impiantare qualsiasi schifezza, anche la più obsolescente, di quelle che un paese civile, dinamico, proiettato verso il futuro in modo propositivo e consapevole, non accetterebbe mai di veder sorgere entro i propri confini. Ma la Sardegna evidentemente non corrisponde alla descrizione, perciò, va be’, si sa, siamo poveri e maledetti e comunque siamo ospitali, ecc. ecc.

b) Ci guadagna poi tutto l’apparato politico/clientelare, che da Roma arriva fino a Cagliari e da lì si ramifica capillarmente su tutto il territorio isolano, con le sue articolazioni nei potentati locali e nei sindacati (ebbene sì): per questo apparato la crisi è la conditio sine qua non della sua stessa esistenza. Il ricatto occupazionale è l’arma vincente, sempre e comunque: che si tratti di speculazioni immobiliari o industriali o energetiche, poco importa.

c) Traggono lauti introiti da tale situazione anche le società fornitrici di energia, che poi alla fine sarebbe fondamentalmente una e in regime di monopolio. Benché la Sardegna produca annualmente più energia di quanta ne consumi (fonte Terna), per una serie misteriosa di concause deve sobbarcarsi un costo energetico superiore almeno del 30% (ma spesso di più) rispetto a quello medio italiano. E lasciamo stare i paragoni col resto d’Europa. È uno di quei misteri insolubili che avvolgono come un incantesimo il nostro familiare e consolatorio stato di precarietà.

A occhio e croce manca qualche voce all’elenco, perché è sicuro che ci siano anche altri soggetti interessati al vortice incontrollato di denaro – per lo più pubblico, ripetiamolo, ossia anche nostro – che fa girare questo meccanismo assurdo.

Ora, dice, i lavoratori sono sul piede di guerra. Già pochi giorni fa, a Roma, hanno ricevuto un’accoglienza poco amichevole dalle forze dell’ordine. Il paradosso è che quei lavoratori erano lì a pietire aiuto proprio da quelli stessi che li hanno fatti manganellare.

Ancora oggi bisogna leggere (non senza una montante sensazione di nausea) le dichiarazioni di alcuni esponenti politici sardi. Annichiliti da una situazione che vorrebbero controllare a proprio vantaggio ma che minaccia di oltrepassare le loro capacità intellettive, non sanno fare altro che starsene rintanati da qualche parte e tirar fuori il capoccione giusto per il tempo necessario a emettere uno slogan. Uno di loro, tale Luciano Uras, leader di quella che dovrebbe essere la sinistra politica isolana, pare che abbia tuonato contro il governo italiano. Per dire che cosa? Che deve scucirci l’elemosina, giacché tutte le forze politiche democratiche e autonomiste sarde sono dalla parte dei lavoratori (fonte, IlSardegna di oggi, 24 novembre 2009). Il governo “amico” del miglior presidente del consiglio della storia italiana si è subitaneamente riunito in seduta straordinaria, atterrito da cotanta minacciosa dichiarazione. Ma fatemi il santo favore!

Insomma, cosa sarebbe questa crisi di cui tanto si ciancia? Cos’è che vogliamo veramente, in Sardegna? Fatemi capire bene: stiamo lottando perché le cose rimangano così com’erano fino a ieri? Be’, se è così, non riesco veramente ad essere indulgente e nemmeno molto partecipe con le situazioni, pure spiacevoli e in qualche caso drammatiche, dei lavoratori. Non è più tempo di lagne e di piagnistei. Non è più tempo di fare gli accattoni del sistema economico dominante, le ultime ruote del carro, le pedine sacrificabili, che pregano per rimanere tali. E non sarà certo qualcun altro all’infuori di noi a trarci da questo pasticcio. Non si può pretendere che le aziende, le grandi società per azioni il cui scopo è il profitto, si facciano carico dei nostri problemi di subalternità economica, culturale e politica. Non possiamo aspettarci che il mostruoso coacervo di interessi clientelari e parassitari che sono la politica e il sindacato in Sardegna chiuda da sé i rubinetti che lo alimentano. E non possiamo sperare che venga in nostro soccorso l’apparato di potere che domina l’Italia, in tutt’altre faccende affaccendato. E nemmeno quello che gli si sostituirà entro breve, anch’esso con i suoi scopi e i suoi disegni ben lontani dalle necessità e i problemi dei sardi. I quali, in tale contesto, se non mutano le premesse e le loro stesse aspettative, sono condannati a restare semplici oggetti di decisioni altrui, meri strumenti della storia.

Se non lo capiamo, se nemmeno la situazione per certi versi grottesca di questi giorni – con i vertici aziendali in apparente combutta con sindacati e amministratori locali a spingere avanti i lavoratori perché la situazione assuma contorni preoccupanti per il Palazzo, in modo che sia costretto a mettere mano al portafogli -, se nemmeno questo paradosso mortificante che ci spinge a pretendere di essere mantenuti in cattività riesce a offrirci un’occasione di resipiscenza, lo stimolo per un sussulto di dignità, be’, allora abbiamo poco da parlare di crisi. Qui non c’è possibilità alternativa che tenga: si tratta di una condizione di sottomissione cui non vogliamo sottrarci e cui vogliamo condannare i nostri figli. E la responsabilità, cari miei, non sarà di qualcun altro.