Il lavoro degli altri

In Sardegna vige una regola balzana, nel mondo del lavoro. Non è esattamente una regola generalizzata, ma vi si attengono scrupolosamente moltissimi lavoratori (in senso lato: dall’operaio, all’artigiano, all’impresario edile, al geometra, ecc.).

Secondo tale regola è proibito svolgere il proprio compito, che sia materiale, intellettuale o di controllo, nel migliore dei modi possibile, bensì esattamente l’opposto: si deve fare il minimo, con lo sforzo minore e a prescindere da qualsiasi esito concreto del medesimo, nonché dalla soddisfazione del committente/cliente/utente. L’artigiano che non finisce accuratamente il lavoro, l’impiegato che disbriga le proprie mansioni in ritardo e svogliatamente, il professionista che non si spende al meglio delle proprie possibilità per risolvere il problema che gli è stato affidato, l’operaio che tira a finire presto e al minimo sforzo, il giornalista che si affida alle agenzie e ricostruisce malamente fatti su cui non ha cognizione, l’impresario che lesina su materiali e qualità dell’opera: gli esempi sono tanti e l’elenco potrebbe continuare abbracciando tutte le categorie occupazionali. La mancanza di  coscienziosità nel proprio lavoro è talmente radicata, che risulta persino inopportuno rilevarla e ancor di più stigmatizzarla. Si fa così, non c’è altro modo di lavorare.

Ovviamente, a parte la preclusione di qualsiasi possibilità di successo economico e sociale, e prescindendo dai costi privati e pubblici che alla fine la collettività deve sopportare, entra in gioco qui anche la dignità personale di chi si disbriga così disinvoltamente di mansioni e doveri retribuiti. La mancanza di cura per ciò che si fa chiama in causa la qualità umana di chi se ne rende responsabile.

Eppure sembra che la cosa non importi. Se qualcuno ha la pretesa di lavorare seriamente, di prendere a cuore i modi e gli esiti del proprio lavoro, viene visto come un perturbatore dell’ordine costituito.

Non so se si tratti di una patologia culturale/sociale tutta sarda, ovvero di una sindrome italica diffusasi anche da noi, o ancora di una conseguenza del sistema socio-economico capitalista/consumista in quanto tale. È evidente, però, che le conseguenze sono macroscopiche. Non si limitano all’esito infelice della ristrutturazione dell’appartamento o al trattamento scortese ricevuto in un negozio, ma investono la qualità della vita di tutti. Dal rispetto per l’ambiente, alla qualità dei servizi, alle necessità quotidiane di ciascuno di noi, tutto viene sminuito, impoverito e mortificato da tale atteggiamento sbrigativo e inconcludente verso il proprio lavoro.

Quando ci sentiamo spinti dall’indignazione a prendercela con qualcuno che occupa un ruolo di rsponsabilità, ritenendo di doverci aspettare il massimo dell’impegno e risultati concreti dalle sue mansioni, proviamo a riflettere se noi, nel nostro piccolo, facciamo sempre fino in fondo il nostro dovere, o semplicemente ciò per cui siamo pagati. Non importa di cosa si tratti, è una questione di igiene morale, di dignità privata e pubblica allo stesso tempo. Perché da tale passiva accettazione della mediocrità e del menefreghismo derivano guasti enormi, difficili da contrastare e da rimuovere.

Se vogliamo che il mondo sia migliore, cominciamo a migliorare noi.