L’Italia si divide sullo stato vegetativo permanente di una povera donna che non ha più voce in capitolo su se stessa: è sempre comodo sollazzare l’opinone pubblica teledipendente con questioni di principio irrisolvibili, per alterarne il senso critico e distrarla da altro.
Intanto in Congo si consuma la tragedia di popolazioni la cui esistenza vale meno delle materie prime sui cui giacimenti avventurosamente sono condannate a vivere e a morire, ignorandone i vantaggi (senza che la chiesa, sempre sollecita ad accusare qualcuno di omicidio in casi singoli di umana pietà, faccia sentire la sua autorevole voce). Naturalmente non c’è niente di casuale o di ascrivibile all’indole barbare delle genti africane: trattasi di beghe tra USA e Cina per il controllo economico dell’area.
La percezione dei due eventi è assai diversa. Il caso singolo, amplificato artificiosamente dai mass media, assume dei connotati simbolici che potrebbe tranquillamente non avere, anche solo ricorrendo al silenzio (nulla vieterebbe di porre fine ad una pseudo-esistenza nella più totale discrezione, magari con l’aiuto di un medico amico): ma è diventata una battaglia civile, di rispetto del diritto a disporre della propria vita, specie quando la qualità della medesima è ridotta allo zero. In ogni caso se ne parla e ci si accapiglia in merito. Viceversa, la strage di tante persone, di cui molti sono bambini e il resto sono per lo più donne, benché orribile in termini generici, non sollecita tanto dibattito. In realtà molti, debitori al medium televisivo delle proprie informazioni, non ne sanno quasi niente. E comunque, ne sono molto meno impressionati: tanto sono cose lontane, che accadono a popolazioni arretrate e incivili.
In entrambi i casi quel che salta all’occhio è una clamorosa perdita di contatto con qualsiasi senso basilare della vita e della morte. L’ottundimento della nostra sensibilità, la deprivazione sistematica delle nostre facoltà di percepire e quindi di immedesimarci, fanno sì che ci si possa costringere senza grande sforzo a dare importanza a ciò che non ne ha poi molta e a negarla a ciò che dovrebbe stare in cima alle nostre preoccupazioni di esseri umani. La distanza artificiosa dai processi biologici, soprattutto quelli della nascita e della morte, è il primo e più forte strumento di tale deprivazione, che poi è l’anticamera del controllo su di noi. La riduzione a fenomeni clinici dei due momenti culminanti ed essenziali di qualsiasi esistenza (il suo inizio e la sua fine) tolgono ogni possibilità di autentica partecipazione a tali momenti non solo agli stessi interessati, per forza di cose di solito protagonisti passivi di tali passaggi di stato, ma soprattutto a chi assiste o osserva. La distanza dai processi fondamentali della nascita e della morte, la loro rimozione da quella che comunemente chiamiamo la nostra vita di tutti i giorni, fanno sì che non abbiamo più il senso del processo entro il quale tali due eventi si iscrivono e assumono un significato. La medicalizzazione spinta della gravidanza e del parto, la negazione della malattia, del dolore e della morte, anch’essi affidati fideisticamente alle cure di estranei e in contesti anonimi, comportano una perdita netta di consapevolezza del nostro stesso stare al mondo e l’affidamento delle nostre percezioni al filtro di strumenti alieni, spesso facilmente manovrabili verso secondi scopi.
Riappropriamoci del senso della nostra finitezza organica, della nostra contingenza (come la chiamava Jaques Monod, il grande biologo) e forse si attenuerà quel senso di distanza e di superiorità sulla natura che ci sta condannando a distruggerla e a distruggere prima di tutto noi stessi.