Il sistema feudale non è finito in Sardegna con l’Editto delle Chiudende e con l’abolizione del regime baronale. Anzi, confermando la massima secondo cui bisogna “cambiare tutto perché nulla cambi”, grazie a tali misure si è perpetuato a lungo.
La classe dominante che ha controllato e gestito, spesso in nome e nell’interesse altrui, le risorse dell’Isola, ha mantenuto i connotati di una casta a base dinastica, composta dall’antica aristocrazia parassitaria, dalla nuova “nobiltà di toga” dei grandi funzionari dell’apparato amministrativo, dai banchieri, dagli speculatori, dagli appaltatori della grandi industrie (miniere, trasformazione agroalimentare, poi anche turismo e grande industria chimica e petrolifera), dai notabili del mondo accademico e delle professioni. Una casta apparentemente composita, ma in realtà ideologicamente e economicamente coesa. Da un lato intenta ad accaparrare ricchezza e potere, dall’altro fervida e fedelissima garante dello status quo a vantaggio degli interessi esterni (imprenditoriali, militari, politici) che le consentivano la sopravvivenza. Baroni, vassalli, valvassori e valvassini hanno governato e saccheggiato la Sardegna dall’età della Restaurazione a tutto il Novecento, con la complicità ottusa e a volte inconsapevole di una larga fetta della popolazione, mantenuta opportunamente in condizione di subalternità economica e culturale.
Ma si sa che le forze della storia umana non sono del tutto controllabili. A lungo andare, in un modo o nell’altro, si è fatta largo anche in Sardegna una compagine sociale più varia e dinamica, che ha saltato a pie’ pari alcuni passaggi storici e si presenta ora, all’appuntamento con la grande transizione di civiltà in corso, dotata di mezzi intellettuali e in certo modo anche economici sufficienti a prendere su di sé la responsabilità di guidare la collettività sarda verso il proprio futuro.
La cosa che salta agli occhi è che la politica, in tutto questo, è rimasta decisamente indietro. Le sue articolazioni partitiche non rispecchiano più quelle sociali. Venuta meno nel discorso della formazione del consenso la scolastica contrapposizione tra capitale e lavoro, essa però riemenge nelle forme complesse in cui si può declinare oggi. Si manifesta sottoforma di separatezza tra parassitismo e creatività, tra chi sfrutta e piega ai propri disegni privati e particolari risorse e conoscenze, e chi produce i beni e i servizi basilari, e possiede le competenze e la voglia di costruire per sé e per gli altri. La prima classe è rappresentata dalle attuali forze politiche, che ormai non possono essere distinte tra loro se non in base ai mezzi che adottano per la conquista dei voti in occasione dei momenti elettorali, ed è direttamente o indirettamente subordinata al grande capitale finanziario e speculativo internazionale. La seconda categoria o classe, invece, non ha quasi nessuna rappresentanza politica nelle istituzioni. Le sporadiche adesioni a qualcuno dei patiti esistenti non significano un rispecchiamento totale di pulsioni, aspettative e progettualità, che rimangono per lo più confinate alla sfera retorica, oppure si coagulano fuori del Palazzo in movimenti, associazioni, comitati, molto spesso attraverso la Rete internet, e a cui danno voce più la cultura, l’arte e la musica, che il circuito dei mass-media principali.
Da tutto ciò, in ogni caso, si evince che l’alternativa al sistema socio-economico-politico che ha dominato finora esiste e in qualche modo è già attiva. Quando nel 2004 si fece strada l’ipotesi di una candidatura di Renato Soru alla più alta carica sarda, i partiti tradizionali, specie quelli cui egli si proponeva come candidato, non ne furono affatto lieti. Eppure era evidente, o lo fu ben presto, che si trattava del quasi certo vincitore della contesa elettorale. Il sospetto o l’aperta ostilità delle nomenklature erano dovuti all’intuizione che Soru, con le aspettative suscitate, rappresentava una condanna per i loro interessi consolidati e per quelli ancor più solidi dei poteri reali cui facevano (e fanno) riferimento. Per quattro anni abbiamo assistito alla guerra condotta, senza risparmio di bassezze, dal blocco storico che ha ereditato il possesso dell’Isola contro l’emergente classe dirigente esterna a tale blocco, da Soru in buona misura rappresentata. Al di là delle singole decisioni, delle leggi o dei provvedimenti considerati separatamente, la cifra storica complessiva di queti anni di governo in Sardegna è data dall’aver imposto all’agenda politica il primato dell’interesse collettivo e la difesa della sfera di autodeterminazione dei sardi. Proprio ciò che storicamente, anche dopo la fine del feudalesimo e fino ai nostri giorni, la classe dominante sarda e i suoi mandanti esterni avevano cercato di scongiurare con tutte le proprie forze.
Ora, ad un anno o poco meno dalle prossime elezioni, molti dei nodi non ancora sciolti cominciano a venire al pettine. Il blocco sociale e politico che desidera perpetuare il proprio potere come nel passato non può accettare, senza combattere in tutti i modi che gli saranno possibili, che Renato Soru e le forze sociali e morali che egli in qualche modo rappresenta (o potrebbe rappresentare) si ripropongano alla guida della Sardegna. Sono in gioco grandissimi interessi, di varia natura, per lo più col proprio centro di gravità posto all’esterno dell’Isola. Dall’altra parte la compagine sociale che vorrebbe assumere definitivamente la responsabilità storica delle nostre sorti e che vede in Soru la migliore guida disponibile sul campo, non ha ancora una coesione che la renda efficace sul piano della raccolta del consenso e deve definitivamente svincolarsi da una serie di equivoci culturali e politici che ne imbrigliano la forza. Lo stesso Soru, che con mossa azzardata aveva accettato di sposare la causa fallimentare del Partito Democratico italico, deve decidere se valga la pena di logorarsi in compromessi e trame di Palazzo, pur di mantenere la guida di una compagine fondata su un impianto ideologico radicalmente contrapposto al suo, oppure assumere su di sé il ruolo di traghettatore della Sardegna verso la sua trasformazione da oggetto a soggetto della storia.
Non è una decisione facile, ma appare ormai evidente che non sarà possibile eluderla, specie in considerazione del definitivo fallimento dell’impianto istituzionale (e culturale) “autonomista”, difeso finora come l’unico possibiile. Se non sarà Soru a prendere una decisione netta e radicale, sarà la storia a decidere per lui e per tutti. Certe forze, una volta evocate, sono difficili da arrestare. L’insofferenza verso la classe politica attuale, la crescente adesione alle istanze dichiaratamente indipendentiste, la maturazione di una vasta gamma di energie creative e di competenze pratiche e intellettuali, i crescenti contatti culturali ed economici con l’esterno (che internet e collegamenti aerei a basso costo non riducono più all’Italia), segnalano la necessità di una svolta epocale. Basterà forse una scintilla, magari accesa irresponsabilmente dagli stessi avversari, a far detonare la deflagrazione storica che si prepara. O forse ci vorrano anni e un processo più lento e problematico. Ma un’inerzia si è interrotta e la massa è troppo grande per poterla fermare senza un enorme dispendio di energia. Cercare di difendere l’esistente è impossibile. Esitare significa essere travolti. Se i sardi e chi si propone come loro guida politica rinunceranno a prendere su di sé la responsabilità della propria sorte, sarà una sconfitta storica difficilmente rimediabile, dalle conseguenze nefaste per tutta la Sardegna. E non potremo gettarne la colpa su nessun altro.