I sardi devono essere italiani

Chissà perché, il Presidente Emerito della Repubblica Italiana, Francesco Cossiga, interviene questa settimana su L’Altravoce on-line (03/06 – 07/06 2008, www.altravoce.net), affermando che l’appartenenza dei sardi all’Italia discende da un scelta storica e da una vocazione condivisa. In un secondo intervento l’ex presidente italiano specifica che sì, va be’, i sardi sono una nazione diversa dagli italiani, ma la scelta di aderire all’Italia rimane valida, indiscutibile e sacrosanta. E lui si sente sia sardo sia italiano.

Ora, lasciamo perdere le ragioni (oscure ma inquietanti) di tali prese di posizione, e diamo per scontato che Cossiga le abbia assunte con piena capacità di intendere e di volere: bisogna comunque avvertire che si tratta di affermazioni, nella loro apoditticità, particolarmente infondate, tendenziose ed anche offensive.

La scelta di farsi italiani, compiuta dai sardi nell’Ottocento, poi santificata dal sacrificio spontaneo di tanti nostri conterranei nelle trincee del Carso e dell’Altopiano di Asiago, sarebbe stata libera e condivisa. Di più (e qui entra in gioco il sacrosanto principio di autorità): se Camillo Bellieni (zio di Cossiga, come il medesimo tiene a sottolineare) ed Emilio Lussu, padri del sardismo, rifiutarono la sola ipotesi dell’indipendenza nazionale della Sardegna, essa non può essere in nessun caso e in nessun modo legittimamente prospettata. A questo, l’esimio personaggio, aggiunge anche una serie di considerazioni circa la sardità, sventolata come bandiera identitaria ma ormai trasformata, a suo dire, in puro folklore.

Non si sa esattamente a cosa si riferisca Cossiga. Certo è che la sua predica viene da un pulpito come minimo sospetto.

Intanto le argomentazioni storiche addotte sono non solo prive di qualsiasi fondamento, ma anche risibili. Nel processo di unificazione politica della penisola italiana i sardi non c’entrarono affatto. Per lo più, non ne ebbero sentore (erano abbastanza impegnati a sopravvivere). La circostanza che i re di Sardegna fossero anche le guide politiche (poco entusiaste, a dire il vero) di tale avventura, non significa affatto che i sardi ne fossero a qualche titolo coinvolti. Se poi consideriamo come prova storica di una adesione identitaria italica l’Unione Perfetta con gli stati di terraferma, benignamente concessa nel 1847 dal re Carlo Alberto ai sudditi isolani, be’, anche in questo caso parlare di “volontà” dei sardi è quanto meno una forzatura. Se qualche sardo che desiderava tale omologazione ci fu, si trattò delle èlites borghesi cittadine, speranzose di vedersi prese in considerazione per cariche e prebende. Niente di più.

La retorica della Brigata Sassari e dei grandi padri del sardismo, infine, oltre che stucchevole è anche piuttosto discutibile, specie se la si vuole imporre come unica possibile fonte di pensiero identitario. Dalle trincee emerse casomai la prima forma di consapevolezza di massa circa la sardità, altro che spontanea adesione alla chiamata della patria italiana! Se, come afferma avventatamente lo stesso Cossiga, i sardi sono una nazione a sé stante, non c’è alcuna ragione storica, politica o etica che stabilisca una volta per tutte che non possono farsi stato a sé, se lo vorranno. Tanto meno ce n’è una che impone loro di sentirsi italiani per forza.

Rimane la sensazione che il nostro abbia semplicemente lanciato un messaggio destinato a orecchie pronte a riceverlo. La situazione in Sardegna è quanto mai fluida. Le aspettative crescono e se non prendono direttamente ed esplicitamente la forma di rivendicazioni di statualità compiuta, ne pongono però le premesse. Il che, nell’ottica degli interessi che hanno sempre considerato la Sardegna un oggetto di speculazioni economiche e politiche o un territorio strategico dal punto di vista militare, costituisce un grave pericolo, che bisogna in qualche modo controllare. Magari incanalandolo entro confini accettabili e poco pericolosi per lo status quo (come l’autonomismo retorico, fatto proprio da tutte le forze politiche), ovvero rinfocolando le divisioni, e ribadendo sempre, direttamente o indirettamente,  l’inferiorità atavica e insuperabile della “razza sarda”.