Chi ancora può permettersi di scommettere con qualche possibilità di successo nel breve o medio termine sono i paesi e le comunità che fino ad oggi non hanno sperimentato fino in fondo il sistema occidentale. Se dunque oggi la percentuale della popolazione umana mondiale che detiene e consuma la quasi totalità delle risorse scarse del pianeta si aggira tra il 15 e il 20%, domani potrebbe arrivare al 60, 70 e persino 80% (basti sommare gli abitanti di Cina, India, Indocina e Brasile, per farci un’idea). Insomma, noi abbiamo chiuso con le aspettative di sviluppo lineare progressivo e fra poco saremo raggiunti da altri tre miliardi di persone. Si dirà: tanto meglio, saremo tutti uguali e la smetteremo di menarcela con la storia dei paesi ricchi contro quelli in via di sviluppo. D’accordo. Solo, rimane il fatto, purtroppo incontrovertibile, che il pianeta Terra non sarà in grado di sostenerci tutti. Già lo mettiamo a dura prova noi occidentali, col nostro misero sesto della popolazione umana, figuriamoci se sulla giostra salgono anche tutti gli altri! Senza contare che nel giro di pochi decenni l’estrazione del petrolio e delle altre schifezze grazie alle quali produciamo e sperperiamo energia non sarà più conveniente (posto che ne sia rimasta una quantità apprezzabile, beninteso).
Ma naturalmente i pesci grossi del piccolo stagno in cui tutti nuotiamo lo sanno benissimo e non illudiamoci che stiano lavorando nell’ombra per salvare il mondo. Probabilmente hanno già preventivato un drastico ridimensionamento numerico della nostra presenza sul pianeta. Dal quale loro saranno esentati, ovviamente, e anzi trarranno vantaggio.
Quello che l’ideologia unica che controlla le nostre povere anime tenta di nascondere è dunque che la nostra civiltà sta per concludere la sua parabola storica. Certo, i tempi in questo caso non si misurano in una o due stagioni televisive, ma in generazioni.
In definitiva, siamo in mezzo al guado. In una fase, dunque, in cui si mescolano, o più spesso si giustappongono o addirittura collidono, forze e dinamiche tanto del passato quanto del futuro.
Una delle possibilità che si intravvedono, e che confusamente e non sistematicamente vengono prospettate da molti intellettuali, scienziati e politici di quasi tutto il mondo, è l’espansione fino al livello di massa critica del modello della partecipazione orizzontale, della condivisione e della rete. Sia la produzione – da quella locale a quella globale – che lo scambio (che già oggi è fondamentalmente scambio di informazioni) potrebbero ridefinirsi nei termini di un ridimensionamento quantitativo, di una più equa e articolata distribuzione delle risorse, di una gestione partecipata dello sviluppo (termine questo ormai improprio). La rete informatica, con tutte le sue potenzialità ancora non del tutto espresse, è il medium che più d’ogni altro consentirebbe tale evoluzione e contemporaneamente potrebbe provocare (come di fatto sta provocando) la risistemazione dell’intero apparato dei media esistenti. I quali, come si dovrebbe ormai sapere, non scompariranno, ma verranno ridisegnati nelle loro funzioni dai fenomeni di azione-reazione scatenati nel nuovo contesto. È sempre così quando un nuovo medium di portata generale occupa la scena. A titolo d’esempio, basti pensare alla stampa, per farsi un’idea della dimensione globale e intimamente rivoluzionaria che l’apparizione di un nuovo medium può avere nella storia dell’umanità.
Naturalmente, uno scenario generale come quello sopra prospettato è incompatibile con alcune delle basi del sistema capitalista contemporaneo. Per esempio, la moneta dovrebbe perdere la sua funzione e, più o meno lentamente, scomparire. L’assioma per cui il profitto individuale è un valore da perseguire a tutti i livelli (dalla singola persona, alla società anonima, allo stato) e su cui fondare gli ordinamenti giuridici e le relazioni tra le diverse componenti dell’umanità perderebbe completamente la sua validità. Le residue (benché sempre più evidentemente pretestuose) ragioni che giustificano i conflitti armati sarebbero falsificate da dinamiche economiche e forme di interazione culturale i cui fondamenti sono incompatibili con l’idea stessa della guerra. Potremmo andare avanti a lungo.
In sintesi quello che si disegna qui non è una pura utopia (o ucronia), bensì una delle evoluzioni possibili della situazione attuale. Se qualcosa ne contrasta la realizzazione storica non è una forza intrinseca alle cose, o un destino ineluttabile, ma semplicemente una congerie di ben delineati interessi specifici di gruppi umani che da uno sviluppo simile avrebbero qualcosa da perdere. Non solo i grandi controllori del mondo, le società multinazionali, i potentati palesi o segreti, bensì anche moltissime persone senza altre risorse che la propria forza lavoro, per calcolo o per grettezza, per miopia o per dabbenaggine, lavorano alacremente perché il proprio tornaconto particolare non sia minimamente scalfito da alcunché. A questa composita compagnia non importa affatto che il mondo cada in una delle solite grandi crisi che, come la storia inutilmente ci insegna, risolvono sì tutto, ma al prezzo di sofferenze e devastazioni epocali. Bisognerebbe dunque restringere il campo degli egoisti a oltranza (o degli autolesionisti più o meno inconsapevoli) fino a ridurlo a quei pochi centri di potere, incarnati da non più di qualche decina di individui con i loro clienti e sottoposti, che realmente governano l’umanità e ne determinano in gran parte le sorti. Diffondere conoscenza, allargare la base di partecipazione attiva, coinvolgere interessi diversi che sembrano ancora confliggenti ma possono non esserlo, fornire al maggior numero possibile di esseri umani gli strumenti non solo per la sopravvivenza materiale e culturale ma per l’allargamento del loro orizzonte di senso: se tutto ciò si realizzasse, rappresenterebbe un’esplosione di consapevolezza quale non si è mai verificata nell’ambito della nostra specie. Forse perché non ci sono mai stati prima i mezzi per scatenarla. I mezzi oggi cominciano ad esserci. Tutto sta a lavorarci. Finché siamo in tempo.