L’estate sta finendo…

 L’estate si avvia al suo declino e già fioccano dati e commenti sul giro d’affari prodotto dall’afflusso turistico. Purtroppo, sui dati, solitamente di parte, non c’è da fare affidamento. Sui commenti invece si può spendere qualche parola.

Chi non fosse stato in Sardegna negli ultimi mesi potrebbe pensare, a dar retta alle cronache, che l’industria turistica sarda sia in crisi e tale settore economico stia contribuendo meno di quanto potrebbe alla ricchezza isolana.

Cominciamo a sfatare un mito: il turismo non rappresenta che una frazione marginale dell’intero PIL sardo (vedansi le statistiche degli ultimi anni). Ossia, non è una voce produttiva così fondamentale e determinante come i portavoce prezzolati degli speculatori (autoctoni e stranieri) vorrebbero farci credere. Sacrificare le bellezze e gli ecosistemi ancora integri della nostra terra in nome di uno o due punti percentuali del PIL non sarebbe esattamente una scelta lungimirante (posto che il PIL sia un indice significativo di qualcosa, del che dubitano molti economisti onesti). Far ruotare il sistema informativo sulle tendenziose notizie relative alla crisi del settore turistico, presentandole come sintomo di un fallimento più generale dell’intera economia sarda, appare dunque un’azione di disinformazione bella e buona.

Quanto alla realtà delle cose, c’è da chiedersi se le migliaia di auto e i milioni di persone che tra maggio e agosto hanno scelto la Sardegna per una vacanza o un viaggio non siano che entità ectoplasmatiche o il prodotto di allucinazioni collettive. La perenne lamentela degli operatori del settore, ripetuta meccanicamente, senza alcun vaglio critico, dagli organi d’informazione, non trova riscontro nell’esperienza quotidiana di chiunque sia capitato anche per caso in Sardegna negli ultimi mesi. Sento dire al telegiornale che i porti sono vuoti (causa naturalmente la scandalosa imposta sui natanti destinata ai non residenti) e ho sotto gli occhi le marinerie di mezza isola costantemente sovraffollate di imbarcazioni dal medio al gigantesco cabotaggio. Alberghi e campeggi sarebbero deserti, salvo poi doversi spiegare dove diavolo pernottino le folle di forestieri con cui ci si trova ad avere e che fare ad ogni pie’ sospinto e pressoché ovunque.

Insomma, la domanda sorge spontanea, anzi le domande: quia? cui prodest? Perché? A chi giova?

Intanto, presentare la Sardegna come un potenziale paradiso turistico di là da venire è pericolosamente fuorviante e anche offensivo. L’idea che hanno in mente i fautori di tale ipotesi è di creare una bella e comoda Cuba pre-rivoluzione nel cuore del Mediterraneo, a loro uso e consumo. Ora, è senz’altro possibile trovare un certo numero di voci che concordino nel rimpiangere il regime di Batista, i locali notturni, le laute mance, la prostituzione endemica e la fame dei campesinos, ma per lo più la Storia ha dato un giudizio piuttosto severo su quel periodo lì e sui suoi protagonisti. A prescindere dagli esiti della rivoluzione castrista, che è un altro discorso. Che quello sia però il modello cui vorrebbero che noi sardi aspirassimo, lo si evince facilmente dalle dichiarazioni di molti personaggi coinvolti a vario titolo nel bailamme propagandistico. Uno dei ritornelli più frequenti è che sono i pezzi grossi con le ville, le barche, le donnine e i portaborse al seguito, a portare la ricchezza in Sardegna. In un certo senso è vero: portano la loro ricchezza in Sardegna. Ma a noi altri che ce ne viene? La ricchezza è e rimane loro. A noi rimane un po’ d’acqua potabile in meno e un po’ di sporcizia in più da ripulire.

Una terra bellissima, con il mare più bello del mondo, da adibire a parco di divertimenti per gentiluomini e per il resto, visto che c’è tanto spazio, da concedere ai giochini più o meno innocui dei militari. Questo è il quadro idilliaco dipinto dagli apprendisti stregoni del futuro patinato. Peccato che interferisca la presenza incomoda di un milione e seicentomila sardi. Magari non tutti da buttare via, ma tutti alquanto ostinati e in gran parte renitenti alla normalizzazione.

Ma poi, parliamoci chiaro, chi si lamenta dei cattivi affari estivi, prendendosela con le recenti misure fiscali o con la malasorte o con chissà cos’altro, può dichiarare in tutta coscienza di aver fatto bene il proprio lavoro? I proprietari di seconde case lamentano una diminuzione delle richieste di locazione estiva. Mettiamo che sia vero: non viene a nessuno il dubbio che chiedere 7, 8’000 euro per un mese in due stanze, bagno, cucinino a un chilometro dalla spiaggia più affollata della zona  sia un tantino esoso? Forse il turista preferirà rinunciare alle bellezze sarde ma evitare di gettare sul lastrico se stesso e la propria famiglia. E i commercianti e i ristoratori che asseriscono di aver subito un decremento del giro d’affari? Sono sicuri di aver praticato prezzi e condizioni di accoglienza e qualità all’altezza delle aspettative? Non sarà invece che chi lavora bene, non tira a fregare, sa come comportarsi ecc. ha al contrario ben poco da lamentarsi?

La lamentela in Sardegna è uno sport nazionale. Sempre e su tutto. Quanto ad assumersi ciascuno le proprie responsabilità, Dio ce ne scampi! La visione esclusivamente speculativa (in senso monetario) dell’accoglienza è del tutto controproducente e spesso si basa sull’ignoranza del valore intrinseco del bello e del buono che si può offrire. Finché noi sardi non impareremo a avere cura della nostra terra per se stessa e per noi stessi, non potremo trarne tutte le soddisfazioni e tutti i vantaggi economici che molti di noi si aspettano dal turismo. E rimarremo la colonia oltremarina di sempre.

Per concludere, direi che è meglio lasciar perdere le panzane e i piagnistei stagionali che il sistema dell’informazione ci ammannisce quotidianamente e coltivare un sano senso critico circa la realtà che ci circonda.