La Sardegna vive in questi anni un momento di passaggio delicato e, insieme, potenzialmente fondativo. “Delicato”, perché tale momento si presenta in un periodo di estrema fragilità della civiltà capitalista occidentale, nel cui ambito la Sardegna è inserita, ma in una scomoda posizione marginale, dunque debole; al contempo “fondativo”, perché si pongono le premesse per un ribaltamento effettivo della posizione di subalternità (economica-politica-culturale) cui essa è vincolata da alcuni secoli.
Una delle caratteristiche sovrastrutturali della storia sarda è la mancata formazione, per tutta la c.d. Età Moderna, di una classe dominante-dirigente che si assumesse l’onere del dominio in tutte le sue componenti: non solo la salvaguardia delle posizioni privilegiate di casta o di classe, ma anche l’incarnazione di più ampi interessi generali. Tale classe non riuscì a formarsi sotto la Corona Spagnola, né (direi tanto meno) sotto quella Sabauda. Il tentativo “giacobino” di Giovanni Maria Angioy (1794-6) restò appunto frustrato dal tradimento della casta aristocratica ma anche di molta parte della stessa borghesia urbana e rurale. In epoca risorgimentale, la classe borghese-burocratica sarda, di estrazione eminentemente urbana e di pulsioni moderatamente liberali, scelse di rinunciare, a nome di tutto il popolo, ai residui formali di statualità (con la richiesta dell’Unione Perfetta con gli stati di terraferma, 1847) per tentare la via dell’omologazione all’interno delle dinamiche di dominio più generali. Operazione fallimentare, come fu presto chiaro a tutti (da qui l’avvio del primo pensiero autonomista: Tuveri, Asproni, ecc.). La struttura economica di tipo coloniale, definitivamente instauratasi nel corso del XIX secolo, diede allora vita ad una situazione di stallo in cui il ceto dominante sardo accettava di scambiare i propri privilegi con la sottomissione dell’isola, delle sue risorse, delle sue forze umane, agli interessi esogeni, da cui dipendeva l’apparato repressivo di cui esso stesso aveva bisogno.
La parentesi della Grande Guerra, facendo emergere per la prima volta nella Storia la componente popolare sarda, aprì uno squarcio potenzialmente rivoluzionario. Vaste masse di persone entravano sulla scena politica, non più come sudditi o indistinta massa passiva, ma da protagonisti o almeno comprimari. Successivamente, però, le divisioni all’interno della compagine dirigente del movimento dei reduci, l’ambiguità del disegno politico su cui si fondava il Partito Sardo d’Azione e l’avvento del fascismo, segnarono la fine di quella stagione. Inoltre (sventuratamente, possiamo dire oggi), nel corso del secondo conflitto mondiale in Sardegna mancò qualsiasi moto di resistenza all’occupazione nazista dopo l’8 settembre 1943 (occupazione piuttosto blanda, bisogna pur riconoscere, senza dimenticare che i danni più gravi causati dalla guerra sull’isola furono opera dei bombardamenti anglo-americani). Se si fosse sviluppata un’azione di resistenza, di matrice spontanea o semi-spontanea, comunque a partecipazione popolare, le forze sollevate dalla Grande Guerra sarebbero potute riemergere e offrire così all’isola un ruolo attivo nella fase successiva al conflitto.
Non sappiamo se ciò fosse consapevolmente nei disegni di E. Lussu: certo è che egli si diede a lungo da fare, dall’esilio, per cercare appoggi (politici e militari) al progetto di aprire un fronte interno in Sardegna. Forse per disinteresse, forse invece per interesse (come lascia supporre quel che avvenne dopo), tale appoggio non arrivò. La classe dominante che prese la guida della neonata Regione Autonoma era dunque figlia diretta di quella che aveva gestito l’isola prima del fascismo e in parte anche durante il regime. Un sistema di clientele, di privilegi e di ruoli ereditari, basato su un ferreo controllo patrimoniale delle responsabilità pubbliche e della gestione e distribuzione delle risorse (da pieno anciènne règime, si potrebbe dire).
La sconfitta della zanzara anofele (1951, primo anno in cui in Sardegna non viene segnalata alcuna morte per malaria), l’industrializzazione, il turismo, la diffusione dei mass-media e dell’istruzione, benché fenomeni di per sé “restaurativi” (in senso gramsciano – o anche “gattopardesco” – di “rivoluzione passiva”), hanno avuto però la conseguenza (preterintenzionale) di produrre comunque una forma di progresso. Progresso economico, sociale, culturale, lento ma sensibile. Solo la classe dominante, la cui espressione istituzionale è la classe politica sarda, non è riuscita ad adeguarsi. Finché i progressi erano pochi, accidentali, disomogenei e scollegati, il suo controllo è stato comunque forte ed efficace (anche grazie all’apparato repressivo e a quello mass-mediatico dei centri di potere esterni).
A cavallo del nuovo millennio, tuttavia, una accelerazione nella diffusione dei saperi e nelle possibilità di acquisire consapevolezza critica circa la situazione reale ne hanno indebolito le basi di consenso e quelle di sostentamento economico. Nuove scelte sono diventate improvvisamente possibili. Grazie alle nuove tecnologie e al miglioramento dei collegamenti fisici, tutta una fetta di popolazione, culturalmente progredita, fortemente radicata sul territorio e contemporaneamente in contatto con l’esterno, ha cominciato a pretendere visibilità e potere decisionale. Si tratta di una possibile classe dirigente alternativa a quella vecchia, ormai screditata e incapace di garantire i privilegi del passato alle proprie clientele.
La base economico-produttiva di tale nuova compagine è un variegato sistema di professioni, di mestieri anche tradizionali, di competenze, che hanno trovato il modo di proiettarsi efficacemente nel mondo contemporaneo, spesso con un certo successo economico. La progressiva sprovincializzazione di tante forze produttive e sociali ha reso obsoleto il vecchio sistema di controllo politico, portando alla ribalta nuove figure di riferimento, quasi totalmente svincolate da centri di potere esterni, dunque più disponibili ad assumersi responsabilità di governo dirette, in nome di interessi diffusi e generali (nuova politica ambientale, ridiscussione delle limitazioni di sovranità e di fruizione del territorio, riforma amministrativa degli apparati regionali, eliminazione di rendite parassitarie e di sprechi, ecc.).
Naturalmente tale innovativa strategia di intervento politico si scontra con interessi fortissimi. La reazione delle vecchie forze socio-politiche parassitarie, mal disposte verso una prospettiva di progresso storico inedita per la Sardegna, non si è fatta attendere. Privilegi acquisiti, clientelismi ramificati, vincoli di dipendenza da poteri esterni all’Isola impongono una feroce resistenza contro ogni possibile cambiamento, per loro potenzialmente esiziale. La partita si gioca sul grado di consenso che le nuove forze emergenti saranno in grado di catalizzare e su quanto metterà radici il processo da esse avviato. Ed è anche un banco di prova circa la raggiunta maturità dei sardi, non più oggetto dei processi, ma soggetti attivi della propria storia.