
Giorgio Zanchini: «C’è un’ultima domanda che vorrei fare a Carla Bassu, costituzionalista che insegna diritto pubblico comparato all’università di Sassari. Il cognome è sardo, credo che lei sia sarda, spero non indipendentista, se posso dire una cosa così. Professoressa, buongiorno.»
Carla Bassu: «Buongiorno. Senz’altro no, senz’altro no. Sarda e italiana: una cosa non esclude l’altra. Questo vale in Italia così come in Spagna.»
Così inizia il rapido dialogo tra Giorgio Zanchini, conduttore della popolare trasmissione Radio Anch’io, su Radio1 RAI, e la prof.ssa Carla Bassu (si può ascoltare qui, dal min. 56.45). Il tema è quello del parziale indulto concesso dal primo ministro spagnolo Pedro Sanchez ai leader catalani indipendentisti incarcerati.
La trasmissione, in genere apprezzabile per equilibrio e qualità giornalistica, affronta il tema attraverso le testimonianze di ospiti di orientamenti diversi.
Il problema è che il pubblico italiano, anche e forse soprattutto quello “informato”, della questione catalana ha un’idea a dir poco parziale, molto orientata in termini anti-catalani, sia da posizioni di destra esplicita (la Lega, ex partito sedicente indipendentista, appoggia i nazionalisti franchisti di Vox, per dire), sia da posizioni di centrosinistra (ossia di destra liberale, diciamo), come tanti esponenti del PD e docenti universitari italiani di quell’area politica.
Il resoconto mediatico prevalente e largamente egemonico in Italia ha sempre evitato di sviscerare la questione sia nei suoi termini storici, anche recenti, sia nei suoi termini più strettamente politici e sociali.
Ne dà dimostrazione palese la stessa prof.ssa Bassu quando si lancia in una sorta di panegirico della costituzione spagnola, a suo dire aperta a qualsiasi forma di negoziato per l’ampliamento delle autonomie locali. “In un contesto, però, di stato indissolubile”, precisa Bassu. Il che già pone un limite cogente, esterno e a-storico, a un processo – quello dell’autodeterminazione democratica – che invece, per propria natura, non è solo e principalmente giuridico, ma prima di tutto politico, sociale, culturale.
Per altro, queste considerazioni sulle possibilità ipoteticamente offerte dalla costituzione spagnola sono contraddette dalla realtà storica recentissima. È proprio dall’approvazione del nuovo statuto della Generalitat catalana del 2006, con tutte le sue traversie e la sua bocciatura finale a Madrid nel 2010, che emerge il procés indipendentista di questi anni (qui se ne può leggere un esauriente resoconto, con qualche riflessione supplementare). Ignorare questo percorso, con tutte le sue tappe a livello istituzionale e di dibattito pubblico, condanna il discorso ad essere privo di fondamento, dunque puramente (e capziosamente) astratto.
Anche qui è come se vigesse una sorta di “come se”. Sostenere che gli indipendentisti catalani siano una massa di borghesi, ricchi, viziati, egoisti, che vogliono la loro secessione per pura grettezza morale – pensiero diffusissimo in Spagna e anche in Italia – è un’evidente sciocchezza, a dispetto del fatto che abbia così tanto successo.
Sostenere che la Catalogna non abbia diritto a un processo di autodeterminazione, nemmeno democratico, nemmeno sottoposto allo scrutinio di un voto popolare, fa a pugni con le petizioni di principio a difesa della democrazia e delle costituzioni, in quanto baluardi civili e politici contro le derive autoritarie.
Non si può vivere in una perenne fiction. Questo vezzo di imporre un “come se” e costringere ogni ragionamento politico dentro cornici di comodo, validate solo dall’insistenza ossessiva con cui a livello mediatico e istituzionale le si impiega, non fa fare mezzo passo avanti al dibattito e non aiuta certo la cittadinanza ignara a capirci qualcosa.
Il problema è che in Italia e nella Sardegna “coloniale” il “come se” e l’ostilità verso qualsiasi principio di realtà dominano sovrani. Riprenderei in proposito l’analisi del dialogo tra tra Zanchini e la prof.ssa Bassu. Ne riporto un altro pezzo:
Zanchini: Ricordiamo, professoressa – viene un po’ da ridere – la Sardegna è stata più tempo sotto la Spagna che sotto l’Italia; questo è vero o no?
Bassu: Ebbene sì, ebbene sì. Anche questo però ha contribuito a rendere così particolare e multiculturale la nostra identità. Quindi un arricchimento.
Non è sorprendente che si possa affermare che la Sardegna, oggi, è “sotto l’Italia” senza trarne alcuna riflessione, nemmeno un vago segnale di ricezione della problematicità che un’affermazione del genere pure esprime?
Stare “sotto l’Italia” come un tempo stavamo “sotto la Spagna” cosa significa esattamente? Si possono davvero fare paralleli così semplicistici, o c’è da dare qualche spiegazione? E in ogni caso, “stare sotto” è una condizione normale, accettabile o addirittura desiderabile, per una terra e una popolazione?
Su tutto questo nell’occasione si sorvola. Certo, il tempo a disposizione e il contesto stesso non favorivano un approfondimento, ma non è la prima volta che questi temi vengono trattati dai media italiani, persino da giornalisti preparati e di solito estremamente corretti come è Giorgio Zanchini, con tanta superficialità.
A un ascoltatore o a un’ascoltatrice qualsiasi, cosa rimane di questo dialogo a tratti surreale?
Intanto che in Sardegna è abbastanza normale essere indipendentisti (il che forse è più vero di quanto si racconti), benché sia un fatto da stigmatizzare. Zanchini “spera” che la sua interlocutrice, in quanto sarda, non sia per questo anche indipendentista. Perché? Io sono curioso di saperlo. La prof.ssa Bassu dal canto suo mette subito le mani avanti: no no, ci mancherebbe, niente indipendentismo; siamo tra persone civili, qui.
Bassu fa poi un’affermazione anch’essa meritevole di analisi: “[Sono] sarda e italiana: una cosa non esclude l’altra”.
Quindi sono due cose diverse, ma che possono coesistere. Una doppia identificazione che può anche essere pacifica. Anzi, deve esserlo, “in Italia così come in Spagna”. Ma perché? Chi lo stabilisce?
Ma soprattutto, cosa c’entra questo col fatto di essere o non essere favorevoli all’autodeterminazione in forma di indipendenza statuale? Possibile che nemmeno a un livello di istruzione e di competenza così alto si riescano a distinguere adeguatamente i vari piani della questione?
Vige sovrana e viene largamente propagandata quest’idea (scema, abbiate pazienza) che qualsiasi aspirazione all’indipendenza o anche solo a un’autodeterminazione più generica, ma radicale, sia frutto di una pretesa assurda, quasi inspiegabile razionalmente, “anti-storica”, comunque esecrabile dal punto di vista politico ed etico. Perché? Non ci si dovrebbe fare qualche domanda, prima di dare per scontata la solidità di certe affermazioni apodittiche?
Per giunta, nel caso della Sardegna, ma anche della Catalogna e della Scozia, l’aspetto etnico-identitario ha un peso o limitato o inesistente nella necessità storica espressa dalle aspirazioni indipendentiste. Anche quando tale aspetto c’è, il nucleo forte e decisivo di tutte queste istanze in realtà è prima di tutto la piena realizzazione della democrazia.
Il che tanto più è valido, quanto più sussistono relazioni sbilanciate, deficit nell’esercizio di diritti fondamentali, propensioni centralistiche e/o autoritarie da parte degli stati-nazione, condizioni di mancato rispetto di diversità linguistiche, culturali, storiche, situazioni socio-economiche di tipo coloniale.
Parlare di identità multiculturale, riguardo alla Sardegna, farà anche un certo effetto, ma è una dichiarazione che andrebbe argomentata e circostanziata, altrimenti suona come un diversivo. Se è vera, in che termini lo è? In base a quali processi? Quali ne sono gli esiti?
Ancora: parlare di arricchimento, nelle ibridazioni culturali imposte da processi storici di dominio e subalternità, non suona vagamente colonialista? È anche probabile che nella storia coloniale siano infine emersi elementi di arricchimento culturale, nelle popolazioni sottomesse. Gli studi post-coloniali si interrogano su questi temi. Basti pensare alla teoria del Terzo Spazio di Homi Bhabha, tanto per citare un nome noto.
Ciò però non significa che dobbiamo accettare acriticamente, e anzi – sembrerebbe di capire – con gratitudine, i processi storici in cui la Sardegna o qualsiasi altro territorio e/o comunità umana, a vario livello e in vario grado, siano stati (o siano) oggetto di subalternizzazione, minorizzazione, sottomissione.
Se non è evidente l’aberrazione insita in questo ragionamento, tale mancata percezione è essa stessa il segnale di un problema irrisolto. Che non può essere eluso. Non possiamo eluderlo in Sardegna e sarebbe ora che lo si affrontasse per bene anche in Italia.
Come diceva uno dei padri della costituzione spagnola: “La costituzione è stata scritta con una pistola sul tavolo.” Alla professoressa Bassu però questo particolare non interessa.
Uno dei tuoi migliori interventi.
Ci sarebbe tanto da dire sugli errori commessi dai nostri compagni di pensiero catalani, ma meglio mettere in risalto le parole di Jordi Sànchez, segretario generale di Junts, già presidente dell’Assemblea Nacional Catalana: “Los indultos, si llegan, no serán a cambio de ningún arrepentimiento por mi parte y estoy convencido por parte de cualquier otro preso político”.
Noi sardi, ricchi da un punto di vista multiculturale, dovremmo capire bene queste parole (tradotte in spagnolo dal sito Economía Digital lo scorso 14 giugno). Nessun pentimento, nessun baratto, nessuna rinuncia alle proprie idee, nessuna resa.
Come dire, la differenza tra ”stare sotto” e stare quantomeno allo stesso livello. Sempre e comunque.