Non so se avrei scritto qualcosa sul tema, se non fosse stato per l’orrido video firmato giunta Solinas, uscito oggi.
Si intitola “La Sardegna è più forte” ed è stato lanciato con tanto di hashtag (urgente, proprio) sulla pagina Facebook della RAS (non chiedetemi di linkarvela qui, andatevela a vedere di là).
Un montaggio di foto e disegni malamente allestito, si direbbe da un adolescente alle prime armi, col sottofondo stomachevole dell’inno della Brigata Sassari.
Che sia stomachevole, l’inno, è una mia opinione estetica e politica, naturalmente. Ma sarei disposto a difenderla in qualsiasi sede, con solide argomentazioni.
Per altro non si capisce – o si capisce fin troppo bene – perché usare una marcetta militare pregna di significati discutibili al posto dell’inno ufficiale della RAS tuttora in vigore, Su Patriota sardu a sos feudatàrios. Cos’è, sembrava troppo pericoloso? Magari ricordava a troppa gente che tra due giorni cade Sa Die de sa Sardigna?
Ma in fondo la sigla delle comparsate folkloristiche della Brigata Sassari è la giusta colonna sonora per quest’operazione di squallida propaganda. Veicolata naturalmente anche tramite i mass media, a cui sospetto (spero di essere smentito) la Regione avrà pure pagato qualcosa.
Perché uno dei bubboni purulenti che infettano l’informazione sarda è appunto la sua relazione tossica con il potere regionale. Non solo in termini di complicità dei padroni delle testate con i padroni delle consorterie politiche dominanti, ma anche in termini più diretti di finanziamento, sotto forma di contributi per l’editoria o di inserzioni a pagamento.
Una materia su cui una volta o l’altra mi piacerebbe leggere qualche bella indagine conoscitiva, qualche ricerca fatta come si deve, sia sul piano sincronico (come stanno le cose adesso), sia su quello diacronico (ossia, storico).
In tempi eccezionali, come quelli della pandemia di covid-19, sarebbe stato importante avere un’informazione all’altezza. Non è stato così in Italia (salvo rare e marginali eccezioni), non è stato così in Sardegna.
In particolare, le due testate storiche e ancora più autorevoli (sebbene con sempre meno lettori) hanno per lo più svolto un ruolo di rilancio dei comunicati ufficiali delle istituzioni e delle forze dell’ordine, con pochissima voglia di andare oltre, di cercare e di dare le notizie vere, di ottemperare alla funzione di cane da guardia della democrazia e di servizio alla cittadinanza.
Meglio ha fatto SardiniaPost, che, al momento dell’uscita di scena di Giovanni Maria Bellu, era stata sospettata di simpatie filo-leghiste e di compiacenze verso la nuova maggioranza che andava profilandosi e che poi in effetti ha vinto le elezioni regionali.
Se devo dare un giudizio su come siano andate le cose, devo onestamente riconoscere che quella testata tutto sommato è migliorata. Se non altro, in occasione della pandemia, ha costituito una controvoce alla propaganda istituzionale e ha sollevato più di un velo sulla disastrosa (in)azione dei vertici regionali.
Le altre voci critiche o comunque non diligentemente filo-governative sono minoritarie, a volte legate alla militanza politica. Niente che raggiunga il grande pubblico. Nondimeno, voci alternative di cui c’è bisogno, non c’è dubbio.
Nell’insieme, non siamo messi affatto bene.
Il problema dell’informazione in Sardegna, tuttavia, non è nuovo e non è nemmeno una questione su cui si possa sorvolare a cuor leggero.
Si intreccia inevitabilmente con i nodi mai sciolti della nostra storia contemporanea, fin dai tempi delle prime aperture nella libertà di stampa concesse da re Carlo Alberto (dal 1846), passando per la stagione fascista, transitando per il monopolio di Nino Rovelli (proprietario della Nuova e dell’Unione, tra anni Sessanta e Settanta), per arrivare ai nostri giorni.
Raramente e sempre in modo precario in Sardegna abbiamo goduto fino in fondo di una stampa e di un’informazione del tutto libere e indipendenti. I tentativi fatti per rendere più dinamico e plurale quest’ambito sono sempre falliti, per una ragione o per l’altra.
Il problema non è che siano mancati i buoni giornalisti. Se è per quello non mancano nemmeno adesso. Potrei stilare io stesso, a memoria e al volo, un elenco di una decina di ottimi professionisti, distribuiti tra le testate principali e a volte anche in qualche testata minore. E ne dimenticherei sicuramente.
Fare informazione, buona informazione, è costoso. Devi avere strutture, personale, professionisti di vario genere, oltre ai bravi cronisti. Devi avere direzioni coscienti del proprio ruolo, al di là degli orientamenti politici e delle linee editoriali. Soprattutto devi avere fonti di finanziamento che garantiscano la sopravvivenza della testata e possibilmente la sua indipendenza.
Le vendite, se mai sono bastate, oggi non bastano più. Non è un problema solo sardo.
L’informazione isolana è figlia minore, porzione provinciale potremmo dire (e per certi versi coloniale), dell’informazione italiana, il cui intreccio con il padronato e con grandi interessi privati è strutturale e ormai palesemente patologico. Vedi recentissimo siluramento del direttore di Repubblica, con tutti i suoi retroscena e i suoi significati.
La fragilità dell’informazione sarda è dunque figlia di una fragilità storica dell’informazione italiana. Problema al quale non è estranea l’endemica penuria di lettori, oggi ancor più accentuata.
È stato insieme divertente e patetico il tentativo fatto dalla FIEG di sollevare l’allarme sulla pirateria da parte di qualche potente piattaforma social ai danni delle testate d’informazione. L’unico effetto ottenuto dagli editori italiani è stato di far sapere ad ancora più gente, e per giunta dalle pagine dei giornali medesimi, che esiste la possibilità di leggere i giornali a scrocco. Una genialata.
Diciamo quindi che la situazione sarda non è che sia particolarmente degenere. Anzi, tutto sommato direi che in Sardegna esiste una buona tradizione giornalistica e anche uno zoccolo duro di lettori che è sempre stato più consistente della media italiana, forse oggi semplicemente privo di punti di riferimento credibili.
Rispondere alla crisi sistemica di questo settore puntando sul click baiting non è la soluzione più intelligente, per quanto a qualcuno possa sembrarlo.
Su questo mi affido al (e mi fido del) giudizio di Anthony Muroni, che non può certo essere considerato persona poco informata in proposito.
Sul suo profilo Facebook Muroni scrive:
[…]
Il clic non porta soldi e non è in grado di sostenere – nemmeno lontanamente – i costi di un’azienda editoriale, con adeguata remunerazione e tutele del personale giornalistico, figurarsi se è in grado di generare utili.
A guadagnare soldi da questo lavoro, alla maniera della mosca cocchiera, sono le grandi multinazionali delle communications: le aziende che vendono traffico internet (i Giga delle nostre connessioni) e Google, che al di là delle leggi, è sempre capace di creare aggregatori sul suo motore di ricerca.
I banner? Quei pochi che riescono a venderli, fanno contratti quindicinali che coprono a stento i costi-lavoro di un giorno.
Dunque, come si sostentano i siti online di informazione?
Se hanno alle spalle delle aziende editoriali tradizionali, a coprire le perdite annuali sono queste ultime.
Se hanno alle spalle delle aziende non editoriali ma comunque solide, a coprire le perdite annuali sono queste ultime.
Se alle spalle non hanno nessuno, o le aziende di cui sopra si sono stancate di coprire le perdite, cercano di ricorrere a finanziamenti “istituzionali”, inseguendo bandi, assessori, capi di gabinetto.
[…]
Il clic non genera economia e, spesso, per inseguirlo a tutti i costi, si abbassa il livello dell’offerta giornalistica.
[…]
Mi pare un’analisi difficilmente smentibile. E del resto, se si prendono i dati delle testate internazionali, possiamo serenamente dedurre che ormai sopravvivono solo due tipi di testata, a patto di agire in un contesto in cui la lettura di notizie sia una pratica ancora di massa.
Da un lato ci sono le testate votate essenzialmente al click baiting più esplicito e addirittura rivendicato; dall’altra le testate che puntano sulla serietà, l’autorevolezza e la qualità dell’informazione.
Non sono due modalità che possano convivere. Invece, guarda un po’, proprio questo è il modello che ha prevalso in Italia e nella sua dipendenza oltremarina sarda: un miscuglio indigesto tra informazione rigorosa e pattume acchiappaclick. Con l’effetto combinato di catturare pochi click (perché di sensazionalismo in rete ce n’è tanto e nessuno lo cerca su testate che ancora si auto-rappresentano come “istituzionali” e “autorevoli”) e al contempo di far scappare i lettori in cerca di una buona e onesta informazione.
In Sardegna poi c’è un altro fattore di inquinamento, che è appunto l’intervento della Regione. Personalmente, data la sua rilevanza come servizio alla cittadinanza, sono totalmente favorevole al sostegno pubblico dell’informazione. I termini e i modi con cui questo avviene però sono decisivi.
Intanto il finanziamento deve essere garantito tramite apposita legge, senza zone d’ombra, al riparo da scelte arbitrarie e dalla discrezionalità politica. Inoltre deve essere dichiarato e trasparente.
Oggi prevalgono, mi pare, le inserzioni istituzionali e altre modalità indirette e tutt’altro che super partes, potenziali strumenti di ricatto. Per questo temo che lo squallido spot propagandistico da cui ho preso le mosse possa rientrare in questa prassi sconveniente.
Date le evidenti inadempienze della giunta Solinas in materia di gestione dell’epidemia, tra scelte sbagliate e decisioni orientate non proprio al bene pubblico, e constatato il colpevole ritardo con cui si sta procedendo a pianificare le prossime mosse in termini rispondenti alle necessità peculiari dell’isola, la questione dell’informazione assume contorni decisamente più allarmanti di quelli, già preoccupanti, che ha in tempi ordinari.
Anche questa è una questione di cui bisognerà discutere, possibilmente in un dibattito pubblico, franco ed esaustivo, senza reticenze, senza zone franche. Coinvolgendo se possibile gli stessi lavoratori del settore, almeno laddove siano meno esposti al ricatto delle proprietà e della politica (sempre che sia possibile).
In mancanza di una prospettiva nuova in questo settore decisivo, ogni tentativo di trovare per la Sardegna un’alternativa politica, civica, sociale e culturale di indole democratica ed emancipativa sarà indebolito in partenza.
Buongiorno, sono Edoardo dell’osservatorio sui media di ASCE Sardegna, abbiamo comunicato in qualche maniera per il tramite di Wolf Bukowski a gennaio.
La discussione sulla ricostruzione di un sistema mediatico indipendente e plurale è quanto mai necessaria, per noi è al centro dell’attenzione da quando esiste il progetto.
Un paio di spunti dall’articolo.
Le leggi di finanziamento, con appositi bandi annuali, esistono:
per le testate online:
https://www.regione.sardegna.it/j/v/2644?s=1&v=9&c=389&c1=1346&id=82737
per la produzione di contenuti nelle cosiddette “lingue di minoranza” (sic)
https://www.regione.sardegna.it/j/v/2644?s=1&v=9&c=389&c1=1346&id=83190
per le emittenti televisive locali
https://www.regione.sardegna.it/j/v/2644?s=1&v=9&c=389&c1=1346&id=83999
per le emittenti radiofoniche locali
https://www.regione.sardegna.it/j/v/2644?s=1&v=9&c=389&c1=1346&id=80414
per “il miglioramento del servizio nel settore della distribuzione dei giornali, a favore delle aziende editrici di editoria periodica”
https://www.regione.sardegna.it/j/v/2644?s=1&v=9&c=389&c1=1346&id=80482
Ci sono molti soldi in ballo, e la sopravvivenza di più di un’azienda. Guardando i contributi, si può notare che la testata online che ottiene il maggiore contributo è proprio Sardiniapost (il contributo è molto parziale, quindi ovviamente avere un editore forte dietro consente maggiore richiesta di fondi).
Probabilmente la questione degli spot istituzionali è più forte per le televisioni e le radio, che in ogni caso godono anche di contributi maggiori (in senso assoluto per le tv, in senso relativo per le radio).
Ovvio che nella politica locale sarda, il travisamento dei diritti come concessioni è una tipica forma di costruzione del consenso. Ovvio che la minaccia di una decurtazione dei contributi in finanziaria basterebbe di per sé a mettere in difficoltà la maggior parte di queste aziende.
Ma la quiescenza delle maggiori testate verso la politica della Giunta non si esaurisce nella mera causa-effetto tra la politica dei contributi e i bilanci delle aziende editoriali. Ci sono relazioni di potere indipendenti da questi passaggi di denaro, quantomeno tra i principali gruppi editoriali e la Regione (L’Unione-Videolina, DBinformation per La Nuova, Onorato per Sardiniapost, l’editoria filo-FdI di Quotidiano.net che edita Casteddu Online), e ci sono le particolari idiosincrasie culturali dell’ambiente sociale della redazione (molto forti nella redazione sassarese de La Nuova, per esempio), più le costrizioni di un lavoro di redazione ridotto all’osso, sempre più impostato sulla riproposizione di contenuti confezionati da altri, che sulla produzione indipendente.
Credo che per quanto riguarda l’espressione di una opinione pubblica di opposizione sistemica all’ordine esistente, contrapposta alla costituzione materiale del sistema in cui viviamo, occorra interrogarsi su delle premesse più profonde:
1) la necessità di una unità delle forze. Stiamo dicendo le stesse cose in 2000, ognuno per una platea di 100 (se va bene). Occorre mettere su una massa critica, e per farlo occorre una cultura del dialogo, della comunità come pluralità, del riconoscimento reciproco che negli anni è venuta meno, e continua a diminuire, e della organizzazione;
2) occorre ricostruire la serietà nell’impegno collettivo. 100 anni fa operai sull’orlo della sussistenza riuscivano a mantenere in piedi decine di giornali autotassandosi, oggi invece la generalità del gratuito e dell’informale regna indiscussa, oltre alla diffidenza reciproca figlia di un paradossale élitarismo di massa, cosicché non si riesce ad avere un organo di informazione forte e compiuto per diffondere il punto di vista situato delle classi subalterne, o delle forze politico-sociali alternative, su basi professionali (intese come dedizione a tempo pieno di competenze già peraltro presenti, non come imbalsamazione dentro un ruolo autoimposto, come purtroppo si intende spesso). Questa è una questione personale e comunitaria di priorità e capacità organizzative, non tanto di soldi che mancano.
Concordo largamente. I due punti finali sono all’ordine del giorno di un discorso più generale, che del resto io stesso ho sollevato più di una volta, qui si SardegnaMondo e altrove. Oggi mi pare che si stia andando in una direzione più virtuosa, da questo punto di vista. Le tentazioni egemoniche sono molto indebolite e si sta prendendo atto di una pluralità che sarebbe vano e anche sbagliato tentare di ridurre a una unità forzosa. Si è constatato che i leaderismi, i personalismi e i tentativi di fare carriera sfruttando i meccanismi stessi dell’apparato di potere dominante sono solo dannosi. Si sta anche attuando, con ritardo forse, una saldatura tra i temi sociali e la questione “coloniale”, tra la sfera degli interessi materiali e della lotta di classe con la battaglia ambientalista e le rivendicazioni di autodeterminazione democratica. Secondo me è un percorso necessario. Chiaramente, la questione degli organi di informazione, che poi si lega anche a un uso più consapevole delle piattaforme social e della Rete in generale, ne fa parte a pieno titolo. Vedremo se ci sarà un salto di qualità.
Ne approfitto per ricordare che il primo maggio, alle 18, in diretta streaming sulla pagina Facebook e sul canale Youtube di Caminera noa, ci sarà un dibattito su questi temi e dentro questa dinamica di aggregazione. Ci sarò anche io. Sarà giusto una tappa interlocutoria, ma l’auspicio è che questi incontri si moltiplichino e assumano anche un carattere progettuale.