Il dirigente del polo liceale di Alghero, con una circolare, proclama che gli unici giorni di legittima sospensione delle attività scolastiche quest’anno saranno il 25 aprile e il primo maggio.
Nessuna traccia del 28 aprile, pure festività prevista nel calendario scolastico regionale, ossia l’unica fonte ufficiale che faccia testo in materia.
Quali siano le motivazioni del dirigente scolastico algherese non è dato sapere, al momento. Anche nella migliore delle ipotesi – ossia quella di una svista – sarebbe una mancanza grave. Se poi venisse fuori che si tratta di una scelta deliberata, saremmo nell’ambito dell’arbitrio illegittimo.
Al di là dei risvolti sindacali e strettamente giuridici di questa evenienza di cronaca, la rimozione del 28 aprile tra le date meritevoli di celebrazione ha anche un significato simbolico e politico.
Sappiamo che da sempre, ossia da quando è stata istituita con legge regionale Sa Die de sa Sardigna, il Giorno del Popolo sardo, questa ricorrenza ha goduto di cattiva stampa e di pessima considerazione presso tutto l’establishment politico-affaristico-culturale che domina l’isola.
Così, mentre in Italia si dibatte sul senso e sulle modalità di celebrazione del 25 aprile, in Sardegna si discute (o si evita di discutere, spesso) sulla rilevanza, la legittimità e il senso della giornata del 28.
Il fatto è che si tratta in entrambi i casi di celebrazioni non facilmente riconducibili allo spirito di unanimismo normalizzatore a cui invece preferirebbero costringerci le classe dirigenti, in Italia e in Sardegna.
Né il 25 aprile, né il 28 si prestano a letture troppo concilianti. Sono anzi – e questa attribuzione emerge spesso come argomentazione ostile – ricorrenze controverse o, come si dice oggi, “divisive”.
Partiamo dal 25 aprile. La sua precarietà come data di celebrazione condivisa da tutta o dalla grande maggioranza della popolazione dello stato italiano non è casuale. L’Italia non ha mai davvero fatto i conti col suo passato fascista e gli ultimi venticinque anni anzi sono stati, in proposito, un periodo di annacquamento del senso comune, di nazionalismo spicciolo ma pervasivo, di ipocrisia auto-assolutoria.
Probabilmente non giova nemmeno a questa ricorrenza il fatto di essere eminentemente locale, ossia di non coincidere con quella internazionale prevalente (8-9 maggio, a ricordo della notte dell’8 maggio 1945, quando la Germania nazista si arrese definitivamente e formalmente).
Inoltre i fatti successivi all’8 settembre 1943 e lo stesso andamento della Resistenza in Italia furono vissuti in modo molto diverso dalle diverse aree dello stato italiano (e in Sardegna in modo del tutto peculiare), quindi anche nella memoria di chi c’era, nei ricordi personali e familiari, è difficile trovare un punto di sintesi realmente condiviso.
D’altronde vale anche qui l’inevitabile distinzione tra “memoria” (che è sempre di parte, individuale, familiare, al più locale) e “storia” (che è elaborazione di una conoscenza basata su fatti accertati, scientificamente fondata).
In ogni caso, credo che i dubbi e i tentativi di attenuazione del significato politico di questa ricorrenza risiedano prevalentemente proprio nel fastidio per ciò che essa rappresenta, ossia la sconfitta del fascismo e di una certa idea di nazione italiana (che non era affatto propria solo del fascismo ma preesisteva ad esso e ad esso è sopravvissuta) e la vittoria delle istanze politiche democratiche, popolari e addirittura socialiste (e comuniste).
In Sardegna la popolarità del 25 aprile è sempre stata relativa. L’adesione a tale ricorrenza è sempre stata mediata dalle grandi famiglie politiche italiane che si sono divise il campo per tutto il secondo dopoguerra e fino a pochi decenni or sono, ossia la DC e il PCI.
Oggi non ci sono più questi aggregatori di partecipazione e di consenso. Il senso comune dei sardi è egemonizzato in buona parte dai contenuti e dall’agenda promossi dalla televisione italiana, senza grandi filtri ideologici e senza punti di riferimento stabili. Dunque prevalgono le cornici di senso e i sentimenti (per lo più retrivi) veicolati da tale apparato mediatico.
Chi sente come vera e vitale la celebrazione del 25 aprile, in Sardegna, lo fa per scelta, ma spesso senza porsi troppe domande.
La sua problematicità, nell’isola, non è dovuta solo alla debilitazione dei “valori della Resistenza”, che pure c’è stata in tutti questi anni, ma anche, su un altro versante, a un rimosso che pesa sempre nell’auto-percezione dei sardi dentro le vicende storiche.
La mancata elaborazione di una critica radicale alla “ragion coloniale” che pervade il nostro senso di appartenenza e la nostra idea di noi stessi come collettività storica produce effetti distorsivi sulla comprensione delle ricorrenze a cui siamo chiamati ad aderire.
È così anche per il 28 aprile. Con l’aggravante che questa data ci coinvolge e ci chiama in causa ancora più direttamente.
Se i sardi sanno ormai poco del senso e degli eventi rievocati dal 25 aprile, nonostante una certa “copertura” mediatica, sanno forse ancora meno del senso e degli eventi rievocati il 28.
Il 28 aprile costituisce ancora una pietra d’inciampo che si preferirebbe aggirare, un pro memoria imbarazzante.
Così come il 25 aprile, anche il 28 aprile, in Sardegna, può essere definita una data “divisiva”. E la sua rilevanza, la sua vitalità, stanno proprio in questa caratteristica.
I tentativi di sminuirne o di annacquarne il senso, con dediche improbabili a cose del tutto estranee come il cibo, o i migranti o addirittura la Brigata Sassari, somigliano ai tentativi in cui si cimenta una buona parte dell’establishment italiano di togliere al 25 aprile la sua vera carica politica, trasformandolo in una celebrazione puramente nazionalista (l’Inno di Mameli al posto di Bella Ciao e altre amenità del genere).
Rappresentare fatti e dinamiche storiche in cui prevalsero istanze di progresso politico, civile e sociale sui privilegi e sul dominio di pochi, sull’autoritarismo, sull’egoismo oligarchico, sulla repressione del dissenso, mette in discussione assetti sociali e di potere consolidati e ci richiama a una responsabilità politica attiva verso il nostro presente.
Evocare la vittoria, sia pure momentanea, di minoranza agguerrite, portatrici di valori eversivi degli assetti politici e sociali esistenti, negare alle “maggioranze silenziose” di tutte le epoche l’esclusività delle buone ragioni, mostrare come gli apparati di dominio economico e politico, a dispetto dei loro mezzi, possano essere sconfitti, hanno riverberi inevitabili nella nostra attualità.
Sottrarre senso e portata politica a tali ricorrenze fa comodo a chi da esse ha qualcosa da temere.
Ma se celebrare la sconfitta del nazi-fascismo o la vittoriosa insurrezione cagliaritana di sa Di’ de s’Aciapa e l’intero periodo rivoluzionario sardo rappresentano ancora oggi una fonte di fastidio e di scandalo per le nostre classi dominanti, non è forse questo il migliore motivo per continuare a celebrarle?
Il che è tanto più valido in questi giorni di reclusione e di isolamento, su cui incombono minacce non troppo implicite di nuove forme di controllo sociale e politico, di autoritarismo mascherato da gestione dell’emergenza, di ulteriore restringimento degli spazi di democrazia e di conquiste sociali.
Anche la riconquista fisica dello spazio pubblico, naturalmente nei modi più rispettosi delle esigenze sanitarie ma anche più fantasiosi, sarà un segnale importante. Così come l’estromissione – fisica e virtuale – di chi nei valori celebrati da queste ricorrenze “divisive” non intende riconoscersi e vorrebbe che non si riconoscesse nessuno.
È proprio per questo che va salvaguardata la natura divisiva, non accomodante né eticamente cedevole, di queste e di altre celebrazioni analoghe. È sempre necessario rammentare le ragioni profonde che dividono democrazia, solidarietà, eguaglianza e pace dai (dis)valori opposti e da chi li propugna. È il fulcro stesso di ogni conquista politica e sociale, di ieri, di oggi e di domani.
Giusto una correzione: la Germania si arrese la notte dell’8 Maggio. Per differenze di fuso orario, quando questa resa entrò in vigore, era già il 9 Maggio a Mosca. L’Europa occidentale quindi festeggia l’8 Maggio, Edolo la Russia il 9…
Sì, è vero.