La lezione delle elezioni e tutto ciò che le elezioni non dicono

Le elezioni suscitano sempre reazioni emotive forti, ma quasi mai significative. Proprio perché basate solo sul fatto contingente e sull’immediatezza dell’evento specifico.

Anche le elezioni di un paio di giorni fa rispondono a questa dinamica. Inutile perciò cercare un senso generale e profondo nelle reazioni e negli sfoghi sia dei commentatori paludati dei mass media principali (quelli che prima non ne indovinano una, poi ti spiegano perché tu hai sbagliato), sia nelle chiacchiere da social.

Tanto più fanno sorridere le analisi severe e spesso paternalistiche – per quanto ammantate di neutralità e di obiettività posticce – di chi la sa sempre più lunga degli altri, salvo non cimentarsi mai in prima persona.

Lo sconcerto e il disorientamento sono ingiustificati, in ogni caso. A meno che non si sia presa per buona fino a ieri la propaganda dei centri di potere più forti, quelli che hanno in mano o condizionano i mass media mainstream.

A volte i propalatori di panzane e di discorsi manipolatori sono i primi a cascare dal pero, come se fossero stati anche i primi a credere alle proprie balle.

Poi ci sono quelli che a quelle balle avevano prestato fede davvero, per paura, per quieto vivere, per egoismo di classe, e ora si risvegliano terrorizzati. Come se non dovessero già esserlo per le malefatte di coloro in cui speravano (tipo Renzi e il suo governo autoritario e anti-popolare).

Vedo molto risentimento in giro, distribuito in modo alquanto uniforme persino nel campo dei vincitori (in questo caso, mescolato all’incredulità e alla gioia).

Tuttavia, che l’elettorato italiano fosse pesantemente orientato a destra era un dato abbastanza sicuro anche alla vigilia del voto. Trovare conferma nei numeri espressi dalle urne non può essere sorprendente.

Che in Sardegna il sentimento prevalente fosse di ostilità verso la classe politica attuale (incarnata in particolare dal PD ma anche da Forza Italia, con i loro satelliti clientelari) era arcinoto. Anche qui, nessuna sorpresa dalle scelte degli elettori.

In generale, la paura e la rabbia, accuratamente indirizzate verso falsi bersagli o verso aspettative seducenti (benché illusorie), sono ingredienti venefici di qualsiasi ricetta politica. In questi anni sono state alimentate e impiegate senza ritegno. I frutti sono quelli che vediamo.

Per cercare di trarre qualche insegnamento non strettamente occasionale dalle dinamiche elettorali provo a prenderla alla lontana.

Nietzsche sosteneva che l’eccesso di consapevolezza nuoce alla preservazione della specie. A lungo questa asserzione mi è sembrata paradossale. Oggi ne comprendo la profonda verità.

Carlo Cipolla, dal canto suo, ammoniva a non farci illusioni sulla marginalità quantitativa della stupidità nella specie umana. Gli stupidi sono sempre di più di quel che immaginiamo e non è facile riconoscerli subito né sottrarsi alle conseguenze delle loro azioni. Posto che non facciamo parte noi stessi della categoria.

Gli esseri umani sono animali gregari, con un forte istinto al conformismo di branco. Non è lo spirito critico né il lucido scetticismo della ragione a guidarne le scelte, ma l’ottuso egoismo, che però si forma, agisce e interagisce sempre in un contesto sociale.

Siamo una specie fondamentalmente stupida, insomma. Una stupidità che nel corso dei secoli è tornata utile alla preservazione della specie stessa, troppo debole e priva di risorse per potersi permettere eccessi di intelligenza e lampi di genio sistematici. Intelligenza e lampi di genio devono rimanere eccezioni alla regola.

Per questa attitudine gregaria gli esseri umani sono facilmente sedotti da una leadership carismatica o almeno enfatica, sopra le righe.

Non sempre queste caratteristiche si sposano con moventi onesti e con intenzioni limpide. Per lo più sono al servizio di pessime idee e interessi egoistici patologici.

Eppure è in virtù della fiducia in scelte idiote e in personaggi assurdi che è andata avanti la storia umana.

Abbiamo da sempre bisogno di affidarci a credenze fantasiose e a farabutti senza scrupoli, per sfangarla da un’epoca all’altra, per quanti disastri e lutti possa costare.

Se a tutto ciò sommiamo i fattori storici che conformano le condizioni concrete dentro le quali esistiamo, non possiamo stupirci se quel che ci succede intorno va per lo più dal disastroso al tragico.

Oggi ci troviamo all’inizio di una transizione storica complicata, il cui andamento potrebbe acquistare, prima di quanto ci faccia piacere, dei tratti ancora più drammatici di quelli mostrati fin qui.

Siamo oltre sette miliardi di esseri umani, mal distribuiti su un piccolo pianeta per puro caso orbitante dentro la Zona abitabile di un sistema stellare periferico di una delle innumerevoli galassie dell’universo conosciuto.

Il modello economico e sociale dominante ha al suo nucleo l’individualismo egoistico assolutizzato, l’enfatizzazione estrema dell’ottusità tipica della nostra specie ma distaccata da qualsiasi vincolo di branco, tanto meno di specie, meno che mai di equilibrio con l’ecosistema.

L’equilibrio biologico della ristretta fascia vivibile del pianeta è messo in pericolo da tale modello economico, così come è messa in pericolo la tenuta collettiva delle comunità in cui si articola la nostra specie nei vari ambienti geografici e climatici.

Le conseguenze macroscopiche delle rivoluzioni industriali, dell’aumento esponenziale della popolazione umana, dell’inquinamento, dell’incuria con cui compromettiamo il nostro stesso habitat cominciano a farsi sentire già nel presente e nel quotidiano di milioni e milioni di esseri umani.

La risposta che i gruppi umani danno a tale andamento storico è disordinata ed eterogenea, preda della stessa logica individualista ed egoistica che sta mettendo a repentaglio la nostra esistenza.

I gruppi che detengono ricchezza e risorse si arroccano a difesa di tale condizione privilegiata, servendosi a tale scopo dei potenti mezzi di condizionamento di cui dispongono.

I gruppi intermedi solidarizzano in modo istintivo, benché autolesionistico, con i primi, illudendosi di difendersi dalla deriva di impoverimento in cui si sentono presi.

I gruppi deboli, marginali o in via di ulteriore marginalizzazione si affidano o a illusioni, o a conflitti indirizzati contro i propri pari condizione o contro altri gruppi in condizioni ancora peggiori: la classica “guerra tra poveri”; oppure arrancano alla disperata ricerca di mezzi per sopravvivere da un giorno all’altro.

Questo è il quadro generale della nostra situazione. All’interno di questo contesto si articolano gli eventi minuti della cronaca quotidiana, compresa la sfera politica locale e le contingenze ad essa legate.

Soffermarsi su aspetti marginali e occasionali di fatti minimi – sia pure non insignificanti – come le elezioni non aiuta a renderci conto di cosa succede davvero.

Per esempio, conferire alle questioni politiche italiane un’importanza che non hanno è un errore, oltre che una perdita di tempo.

L’Italia è uno stato fantoccio, le cui istituzioni sono per lo più occupate da bande di irresponsabili che ragionano e agiscono alla stregua di criminali comuni.

Non che siano tutti delinquenti – almeno nel senso giudiziario del termine – ma i codici di comportamento che seguono sono della stessa specie di quelli dei delinquenti: perseguimento di interessi egoistici immediati; prospettiva limitata alla propria sfera individuale o di clan; disinteresse per qualsiasi bene materiale o immateriale di cui non sia possibile appropriarsi o piegare al proprio tornaconto; indifferenza verso la sfera dei diritti collettivi e civili, degli interessi generali, di un orizzonte temporale più ampio di qualche mese o pochi anni.

La classe politica italiana è selezionata tra le schiere di questa marmaglia irresponsabile, radunata in fazioni a loro volta aggregate (organizzate sarebbe troppo) dentro comitati d’affari che all’occorrenza diventano comitati elettorali.

La classe padronale italiana dispone di queste truppe e fornisce loro legittimazione e sostegno soprattutto attraverso il controllo dei mass media principali.

Creare opinione pubblica desensibilizzata e idiota, disinformare, manipolare le coscienze sono compiti fin troppo facili da svolgere, nel contesto di una collettività sfilacciata, eterogenea, tenuta insieme a forza e indebolita culturalmente da anni di declino (voluto e abilmente realizzato) delle istituzioni scolastiche e delle agenzie formative.

Non che in altri paesi a in altri contesti geografici le cose vadano molto meglio, sia chiaro, ma in Italia la crisi storica generale assume i contorni di una tragedia grottesca proprio a causa della sua natura specifica di entità politica fittizia e priva di un senso suo proprio.

Sperare che questo mostro storico si trasformi, per chissà quale incantesimo, in una compagine umana virtuosa e dotata di caratteristiche favorevoli alla democrazia (la soluzione politica più difficile mai esistita nella storia umana) mi pare un abbaglio decisamente clamoroso.

Capisco che in tanti sentano il bisogno di fingere di crederci o di spingere altri a crederci, ma pretendere che davvero tutti ci crediamo va oltre ogni ragionevolezza.

Onestamente non vedo molte possibilità favorevoli, per l’Italia e per chi vi abita. Non perché sia una porzione di pianeta priva di risorse e sfavorita dalla sorte. Non è così, anzi si potrebbe serenamente affermare il contrario, per tanti versi.

E infatti nel corso dei secoli la popolazione della penisola italiana ha saputo inventarsi soluzioni efficaci per accrescere la propria disponibilità di beni e la loro qualità, ha avuto momenti di creatività e di ingegno e spesso di benessere non ristretto alla sola classe dominante.

Ma sono stati effetti contingenti di situazioni particolarmente favorevoli, mai tradotte in qualcosa di strutturato e ben assestato.

Le sorti dell’Italia geografica sono sempre state in larga misura in mano a interessi di centri politici ed economici più grandi e robusti.

L’esistenza stessa dello stato italiano contemporaneo è un incidente storico dovuto per lo più a decisioni e obiettivi esterni.

Ancora oggi l’Italia esiste come stato in virtù di logiche geo-politiche e di necessità strategiche che poco hanno a che fare, se non in termini accidentali o strumentali, con la vita e col benessere di chi vi abita.

Ecco perché annettere eccessivo significato a un fatto così superficiale – pur nella sua drammatica rilevanza contingente – come le elezioni mi pare inutile ai fini della comprensione di quel che accade.

Il discorso si articola in termini peculiari se riferito alla Sardegna.

Il problema della Sardegna è di essere prigioniera di una condizione totalmente subalterna e dipendente, per di più tributaria verso l’accrocchio politico italiano.

Capisco che sia fastidioso – e per alcune fasce sociali sarde anche controproducente – fare i conti fino in fondo con questa banale verità storica, ma tant’è.

Di solito il discorso su questi temi in Sardegna oscilla tra due poli estremi.

Da una parte il nazionalismo ingenuo e senza prospettive di chi crede che esista un “noi” e un “gli altri”, o “i Sardi” e “gli Italiani” come entità storicamente definite e uniformi, in conflitto tra loro.

Da un’altra, le vittime della mitologia tossica della nostra atavica subalternità che, a vario livello (compreso quello accademico e quello dei mass media principali), si affidano all’auto-commiserazione e all’auto-flagellazione come esorcismi di qualsiasi assunzione di responsabilità.

Per questi ultimi (vittime e spesso allo stesso tempo convinti propalatori di questo mito) la “colpa” (un termine dall’accezione religiosa oppure giuridica) è sempre e solo “dei Sardi” (così, in generale e indistintamente).

Naturalmente si tratta di sue posizioni puramente ideologiche, che non reggono affatto ad un esame appena appena critico.

La realtà non è mai così schematica come ci piacerebbe che fosse. Nelle vicende umane le intime contraddizioni, la dialettica tra coppie oppositive che si respingono ma costantemente gravitano su se stesse, è la norma.

Le vicende storiche rispondono molto più alle leggi fisiche e ai fattori macroscopici di natura geografica e climatica – con tutte le conseguenze anche casuali che ne discendono – che alla volontà degli esseri umani. Tanto meno alla volontà di *singoli* esseri umani.

Nonostante questo, ci è dato di guardare, di interpretare, di farci un’idea e di agire in questo complicato contesto.

Quel che possiamo dire sulle sorti della Sardegna attuale, alla luce di tutto ciò, è che: 1) siamo in una situazione difficile e drammatica ma non ancora disperata; 2) a nessuno importerà nulla della nostra sorte collettiva, se non in termini puramente e spietatamente strumentali verso scopi e interessi estranei alla Sardegna.

Il che non significa affatto che dobbiamo chiuderci a riccio. Tutt’altro. Significa, come anche da queste parti è stato detto a più riprese, che dobbiamo affrontare il mondo “grande e terribile” in termini più decisamente e consapevolmente collettivi e con una voce in capitolo più forte e sicura di sé.

Tutto ciò può e deve avvenire al più presto possibile, dentro le condizioni storiche date e con gli strumenti a disposizione, in attesa e con l’obiettivo di mutare tali condizioni e di procurarci strumenti più efficaci.

Per scendere ancora più esplicitamente sul terreno della politica, il discorso si traduce nella necessità di tenere aperto lo spiraglio democratico che negli ultimi anni – spesso disordinatamente, a volte con passi indietro o fughe in avanti infruttuose – siamo riusciti ad aprire.

Uno spiraglio che deve diventare un fronte politico aperto e il più largo possibile, radicale e conflittuale, senza tanti tentennamenti.

Qualsiasi discorso relativo alla nostra autodeterminazione come popolo (trascurando qui le possibili discussioni terminologiche e filosofiche sui tali concetti) deve concentrarsi nella conquista di una piena e realizzata democrazia, non condizionata né in ostaggio di interessi costituiti esterni.

La relazione dialettica con lo stato italiano non è il nucleo fondamentale di questo processo, ma ne è inevitabilmente una momento decisivo. E non ha niente a che fare con l’ostilità verso “gli Italiani”, così come non ha a che fare con i rigurgiti di xenofobia e razzismo che imperversano anche sull’isola.

Mi pare evidente, anche alla luce dei risultati elettorali italiani, che non sia più possibile usare il pretesto della salvezza dell’Italia (la Sardegna si salva solo salvando l’Italia) per rifiutare la prospettiva dell’autodeterminazione sarda come inattuale o reazionaria o quant’altro.

Non esisterà mai una vera democrazia in Sardegna se non dentro la cornice di relazioni sociali e politiche improntate a una totale libertà delle nostre comunità di autogovernarsi, a una larga libertà di interazione con i popoli vicini e meno vicini, a una soggettività giuridica e politica riconosciuta e pienamente agita nel contesto internazionale.

Non c’è niente di facile e nemmeno di scontato, in tutto ciò. Le necessità storiche hanno la spiacevole caratteristica che per realizzarsi non bastano a se stesse, ma hanno bisogno del concorso di forze collettive a ciò indirizzate e anche di fattori contingenti favorevoli.

Il problema vero, attuale, caso mai è che il margine di tempo per agire efficacemente si sta restringendo.

Perderne ancora appresso alle diatribe tra fazioni italiane, alla tifoseria per questo o quel leader, alle speranze riposte nelle scelte che qualcuno farà a Roma o Milano (o a Berlino o a Bruxelles o a Washington) è molto pericoloso.

Bisogna costituire e irrobustire una nuova classe politica, preferibilmente non senescente, profondamente democratica, dichiaratamente anti-fascista e anti-razzista, non padronale, non impreparata né ignara del mondo, ma radicata nelle nostre comunità.

Partecipare al governo dei comuni, prima di tutto, fuori dai giochi clientelari e lontani dalle seduzioni dei centri di potere esterni; allenarsi ad assumerci la responsabilità delle scelte collettive; formare personale politico: sono tutti elementi indispensabili (come per altro insegnano i vicini esempi della Catalogna e della Corsica).

Il mondo è spietato con i popoli deboli non meno che con i singoli individui.

Capisco che non sia un discorso simpatico, ma mi auguro che la parte meno compromessa ed eticamente insensibile della nostra classe dirigente (posto che ne esista una) lo affronti con coraggio e senza egoismi individualisti. O sarà peggio per noi.

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