Le reazioni alla Brexit, esito del referendum consultivo britannico, sono state varie e di tenore assortito, spesso più emotive che ragionate. Colpisce però l’ondata di risentimento verso il fatto stesso che i cittadini britannici si siano espressi in questo modo. In molti casi si è messa in dubbio la legittimità stessa del suffragio universale, oltre che dello strumento referendario.
In questo hanno brillato, al solito, i commentatori italiani, sia tra gli editorialisti e gli intellettuali di peso, sia tra gli esponenti politici. Uno spettacolo che francamente mi è parso imbarazzante, per meschinità degli argomenti e per sciatteria delle forme. Con apprezzabili eccezioni, per fortuna.
Più argomentate le reazioni di chi nel Regno Unito è straniero e ospite. Non posso fare una casistica esaustiva, ma – a giudicare dai miei contatti personali – in questo ambito ha prevalso lo scoramento e lo stigma su una campagna referendaria condotta malamente da entrambi gli schieramenti.
Per lo più si concorda sul fatto che si sia trattato di un voto poco razionale e sostanzialmente manipolato, espresso da un elettorato disinformato. In più la base valoriale del consenso al Leave era chiaramente reazionaria e xenofoba, benché fatta propria da larghe parti delle fasce sociali più deboli e marginali.
Questa analisi generale sembra piuttosto realistica, nonostante qualcuno abbia provato a dare un altro senso all’esito del voto, attribuendolo a una scelta ragionevole contro l’iperburocrazia europea e la sua chiusura elitaria. Posizione debole, giacché proprio il Regno Unito non può chiamarsi fuori dagli aspetti meno esaltanti del funzionamento dell’UE. E chi ha vinto, alla fine, è un pezzo consistente dell’establishment politico e finanziario britannico, non certo i ceti deboli e marginali.
Nell’insieme, è proprio l’idea di democrazia a uscirne male. Il fastidio per un risultato figlio di scarsa consapevolezza, di paura e di rifiuto dell’altro da sé è del tutto comprensibile. Ma questo deve portarci a ragionare su cosa sia la democrazia oggi, nel mondo globalizzato, nel mondo ipercomplesso e iperconnesso, nell’era dell’infotainment, della crisi permanente, delle migrazioni di massa, delle guerre incombenti.
Non si tratta di fenomeni di cui dobbiamo sorprenderci, a meno che ignoriamo totalmente la letteratura e la riflessione politica e sociale dell’intero Novecento.
La storia umana non funziona per categorie morali o etiche, né ha alcuna considerazione per gli individui in quanto tali. Il grande motore sono le relazioni tra esseri umani e tra i loro raggruppamenti e tra questi e le forze naturali, l’ambiente, le risorse disponibili. Ciò che regola tutto questo sono per lo più rapporti di forza.
In questo scenario, quel che noi chiamiamo democrazia, anche laddove questo tipo di modello politico ha vigore, ha vita davvero grama. La democrazia di tipo rappresentativo (che è quella largamente prevalente) si è da sempre tradotta, di fatto, in un sostanziale regime oligarchico, più o meno temperato.
Quando tale modello ha avuto exploit emancipativi, è successo in virtù di un rovesciamento – reale o potenziale – dei rapporti di forza tra componenti sociali. Il che ha coinciso con le grandi mobilitazioni (di alcune componenti) delle classi subalterne e con al comparsa nello scenario storico di una forza oppositiva rispetto al capitalismo. Per velleitaria e autocotraddittoria che sia stata l’esperienza del socialismo reale nel corso del XX secolo, esso ha costituito un polo di riferimento per masse e porzioni del pianeta desiderosi di sottrarsi alla propria sottomissione, favorendo soprattutto i ceti più deboli dei paesi capitalisti. Su questo c’è poco da ingannarsi.
Oggi non esiste nemmeno questo contraltare ideologico (e geopolitico). L’etica del profitto individuale a tutti i costi domina incontrastata, a volte a dispetto ma più spesso col beneplacito persino delle maggiori confessioni religiose e l’accondiscendenza, se non la palese organicità, di una parte consistente del mondo intellettuale.
Le diseguaglianze crescono, persino in concomitanza con la crescita complessiva della ricchezza mondiale. Ricchezza, teniamo conto, misurata sempre e solo tramite le unità di conto monetarie e riassunta in indici quali il PIL. Niente di particolarmente “scientifico”, in fondo.
Se almeno si seguisse il proposito di Manfred Max-Neef e dei teorici dello “sviluppo su scala umana” di usare nelle misurazioni economiche le grandezze e le unità di misura della fisica (a cominciare dall’energia e dal suo consumo) potremmo anche parlare di una vera scienza economica. Per ora, a dispetto dei teorici dell’homo oeconomicus e altre cavolate di questo tipo, siamo alle astrazioni fantasiose e alle superstizioni.
In tutto questo uno dei pilastri della democrazia – ossia l’eguaglianza e le sue declinazioni concrete – non solo non è mai stato eretto, ma ormai se ne nega persino la necessità. Tutto viene ridotto all’acquisto di beni e servizi, il cui accesso è legato alla percezione di un reddito. Reddito che però il medesimo funzionamento dell’economia reale contemporanea non può più garantire a tutti.
I teorici del liberismo economico asseriscono che va bene così. Non esiste nulla che non sia sottoponibile tanto alla metafisica quanto all’ingranaggio concreto del “libero mercato”, nemmeno la vita stessa. Libero mercato che nei fatti consiste inevitabilmente in una serie di oligopoli o di veri e propri monopoli giustapposti uno all’altro. Meccanismi infernali in cui scompaiono cose nominalmente ancora in voga come diritti, norme legislative, volontà popolari, ecc.
Anche l’istruzione e l’accesso alla bellezza, alla sua fruizione e alla sua comprensione, fattori storici più decisivi di quanto si dica, sono sottoposti alla presunta legge del mercato e sottratti arbitrariamente alla loro condizione di beni comuni non direttamente economici. Così come del resto l’accesso ai mezzi di guarigione, al cibo buono, a volte anche all’acqua potabile. E non solo nei paesi poveri o – come ancora si usa dire – arretrati.
L’ignoranza del popolo, sia dove esso è ancora titolare di quella strana qualità chiamata “sovranità” sia altrove, è dunque perfettamente funzionale a quest’ordine di cose. Non è un effetto perverso di cui si debba addebitare la “colpa” ai cittadini medesimi. Non nel Regno Unito, né – per dire – in Sardegna. E va di pari passo con la crescente precarietà materiale.
La conquista di una condizione di cittadinanza consapevole non dipende da un mero atto di volontà delle singole persone, ma è una conquista sociale collettiva discendente da fattori storici particolarmente potenti e pervasivi, su cui la maggior parte degli esseri umani non può niente.
Se cade il principio di eguaglianza, non ha alcun senso nemmeno quello di libertà. Questa è una delle radicali differenze tra “destra” e “sinistra”, per quanto ci si industri a negarne la cogenza sia teorica sia politica. Finché esisteranno persone e interi gruppi sociali esclusi di fatto e senza rimedio dall’accesso a beni, relazioni e risorse immateriali fondamentali, la democrazia sarà – come diceva uno che non passa per essere un paladino della democrazia – una carrozza vecchia a cui semplicemente sono stati attaccati cavalli nuovi.
Di che democrazia stiamo parlando, dunque? Chi rappresenta davvero la cosiddetta democrazia rappresentativa? E quanto conta nella regolazione delle nostre vite?
E si può parlare di democrazia diretta, di volontà popolare espressa senza mediazioni, in queste condizioni? Quanto è facile, per chi dispone di informazioni e di mezzi di persuasione, manipolare l’opinione pubblica e persino l’immaginario collettivo stesso? E dunque non è forse la democrazia, in tutte le sue forme, una grande finzione a cui bisogna credere per scongiurare il peggio? O il peggio è già qui e noi semplicemente non lo riconosciamo?
In Sardegna, non diversamente da altre parti del pianeta, pure considerate più evolute, la politica e la democrazia sono ridotte a pura spartizione di potere e ricchezza tra gruppi di interesse e clan rivali (ma all’occorrenza solidali tra loro). Con l’aggravante di essere anche sottomessi ad un apparato egemonico fortissimo, volto a renderci una preda facile.
Un meccanismo diabolico e per lo più eterodiretto, a cui si presta – nel proprio interesse – l’élite coloniale locale. Anche per questo il discorso democratico e quello dell’emancipazione sociale non possono essere disgiunti da quello dell’autodeterminazione. Non ci sono nazionalismo nostalgico o mitologia etno-centrica che tengano, in questa faccenda. E poco conta se per queste prospettive – al contrario di quanto lasci supporre la Brexit – non tiri buona aria nel Vecchio continente.
Su tutto questo è più che mai necessario interrogarsi, senza rinunciare alla comprensione del contingente, ma senza perdere lo sguardo sui grandi processi storici dentro i quali siamo comunque immersi. E occorre farlo con maggiore generosità e maggiore senso di responsabilità di quanto l’ottuso e stupido egoismo, ormai dilagante, ci ha abituato a fare.