Il Gigante sepolto della memoria

Ho finito di leggere da pochi giorni Il gigante sepolto, di Kazuo Ishiguro (Ishiguro è il nome, posposto al cognome all’uso asiatico), Einaudi, 2015, e ancora mi sento turbato e chiamato in causa dalla sua lettura.

Il motivo risiede sicuramente nell’abilità narrativa con cui il romanzo è costruito, non per niente elaborato in molti anni di lavoro. Un’abilità che genera incastri e rimandi di una densità e di una evocatività magistrali. Una storia ascrivibile al genere fantasy, ambientata nella Britannia di re Artù, dopo la morte del leggendario sovrano, e tuttavia leggibile a diversi livelli.

La complessità, pure sublimata in una narrazione di per sé non particolarmente complicata, è certamente una causa del turbamento, ma non basta. Come non bastano a spiegarlo gli stilemi kafkiani, usati con destrezza (Kafka è uno dei padri putativi dell’opera, decisamente più di Tolkien). Il motivo più profondo è senz’altro collegato al tema portante del romanzo: la memoria. La memoria individuale e familiare ma anche – e forse soprattutto – la memoria collettiva.

Non mi dilungo a riassumere trama e vicende, né nella descrizione dei personaggi principali. Che prima di tutto sono i due anziani coniugi Axl e Beatrice (chiamata preferibilmente “principessa”, dal suo consorte). L’enigma sulla vera identità dei due fa parte del divertimento e non voglio fare spoiler a questo proposito. Chi conosce almeno a grandi linee le vicende arturiane probabilmente ci arriverà da sé. Ma questo è comunque ancora il livello letterale e di superficie della storia raccontata.

La memoria, dicevo. Questo tema è evocato esplicitamente e al contempo mimetizzato. In particolare la responsabilità della memoria, che entra in gioco tanto nel tenerla viva, quanto nel rimuoverla. Questione che sembra riguardare i singoli personaggi e le loro relazioni personali ma che diventa, già dentro la narrazione, una questione generale. E qui si intravvede la storia della Britannia nel passaggio dall’epoca antica al medioevo, con l’abbandono dei Romani e l’arrivo degli Angli e dei Sassoni. Si richiama la vicenda della colonizzazione britannica da parte di queste genti e della resistenza opposta dalle popolazioni autoctone, con inevitabili allusioni alle migrazioni odierne e alle loro conseguenze.

Ma si possono anche riscontrare riferimenti alla storia più recente, a quella europea, con gli strascichi delle guerre mondiali e la faticosa e forse posticcia unione dei suoi popoli e dei suoi stati; ma anche a quella del Giappone (di cui Kazuo Ishiguro è originario).

Il problema della memoria e della responsabilità su di essa aleggia su questi scenari storici come una fonte di crisi. Che, nella migliore tradizione orientale, significa tanto pericolo quanto opportunità. La memoria conservata può essere minacciosa, se perpetua odio e divisione, e quella negata dunque può essere una risorsa di pace e concordia. Quasi un paradosso, una lancia spezzata a favore della dimenticanza.

Il romanzo sembrerebbe rappresentare un monito a chi si appelli continuamente alla memoria (e magari alla sua codifica storiografica) come fattore fondamentale nei rapporti politici. E tuttavia – e mi scuso se quanto sto per dire può risultare anch’esso una sorta di spoiler – suggerisce anche un’altra interpretazione. Ossia che la memoria è pericolosa solo quando viene dissepolta dall’oblio senza riflettere sulle possibili conseguenze.

La cancellazione artificiosa della memoria, magari voluta dal Potere vigente, è una soluzione di comodo che rinuncia ad affrontare i nodi e dunque a scioglierli, consegnandoli aggrovigliati a un tempo futuro difficile da determinare, ma inevitabile. E certi nodi non si sciolgono da sé.

Rimuovere il conflitto senza affrontarlo, semplicemente dimenticandolo, senza fare i conti con tutti i fattori in gioco, impendendo ad essi di dispiegarsi compiutamente, può offrire un sollievo temporaneo, ma alla lunga può risultare esiziale.

Naturalmente, maneggiare la memoria è sempre pericoloso. Eppure, a ben guardare, è un esercizio praticato sempre con molta disinvoltura dalle strutture di potere e anche da chi ad esse si oppone. È un gioco da apprendisti stregoni. Tanto che può non bastare, per essere liberi, o addirittura essere controproducente, uccidere il drago che ci incanta nella smemoratezza. Bisogna possedere forti anticorpi, per affrontare la memoria e la sua cruda verità, al di là delle manipolazioni che se ne possono fare.

Questo forse è il maggiore motivo di turbamento del romanzo. Specie per chi, da sardo e riguardo alla Sardegna, ha davanti a sé l’enorme problema della nostra memoria collettiva compromessa e ci si sporca le mani. Un ammonimento severo alla cautela, quando si tratta di recuperare la nostra storia, e un invito a interrogarsi costantemente sul come e sul perché lo si fa. Ma un ammonimento anche contro la sua rimozione artificiosa, non meno pericolosa.

Interrompere il filo della storia, dalla sua conoscenza e comprensione, annullandone fittiziamente la complessità, alla fine porta solo pessime conseguenze e inquina anche il presente e il futuro. E tuttavia dallo stordimento deresponsabilizzante della smemoratezza non si esce mai impunemente e senza pericolo. È una lezione importante.

Il gigante sepolto è un grande romanzo. Difficile, straniante, a volte agghiacciante, e nondimeno prezioso. Da leggere e da meditare come pochi altri, nella letteratura internazionale di questi anni.

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