I mass media italiani devono occuparsi per forza di autodeterminazione, costretti dagli eventi, e lo fanno come al solito all’italiana. Ossia, in modo superficiale, provinciale, spesso tendenzioso.
Non c’è da meravigliarsi. L’establishment italico è sempre lo stesso, da che l’Italia è stata fatta poco più di un secolo e mezzo fa. È lo stesso per mentalità, è lo stesso per obiettivi e metodi e a volte è lo stesso anche fisicamente, nelle biografie di chi oggi eredita posizioni consolidate dalle generazioni precedenti. Sappiamo come è stata fatta l’Italia e da chi: su questo fronte è stato detto tutto il dicibile (da Salvemini, Gobetti e Gramsci, fino a storici contemporanei come Crainz, Del Boca e Banti). Non c’è niente di cui meravigliarsi nel leggere le analisi approssimative o di parte buttate là da osservatori pure a volte molto ben considerati come un Ilvo Diamanti o un Ernesto Galli Della Loggia.
I mass media e l’intellettualità sarda organica a tale establishment riflettono inevitabilmente le posizioni del proprio referente sociale e politico. Così capita che il tema dell’autodeterminazione, nella sua declinazione sarda, venga presentato in Sardegna come parte della questione della crisi italiana e esaminato secondo le stesse cornici. Da questo approccio possono venire fuori casi curiosi di trucchi retorici spacciati per giornalismo. Sicuramente non informazioni corrette da cui trarre considerazioni sensate.
Quasi sempre la questione delle aspirazioni di indipendenza e autodeterminazione viene rubricata a fenomeno folkloristico, o a ripiegamento culturale, o a puro nazionalismo etnico. Si tira un profondo sospiro di sollievo per il referendum scozzese, usandolo come argomentazione contro le istanze indipendentiste, si sminuisce la consultazione catalana come esperimento minoritario e senza significato (spesso omettendo informazini rilevanti o persino manipolandole brutalmente), si richiama la contrapposizione tra unità e disgregazione, sia a livello europeo, sia a livello italiano.
In tutto questo hanno un ruolo fondamentale gli interessi in gioco. Quelli difesi dall’establishment italiano e dai suoi podatari sardi sono gli interessi tipici della classe dominante italiana, votata alla rapacità, al familismo, alla corruzione eretta a sistema, all’ipocrisia. Ciò contro cui si scagliava Pier Paolo Pasolini, tanto per citare un altro lucido – e inascoltato – testimone del nostro tempo.
Nella situazione sarda, menzionata la grave responsabilità della sua classe politica e della intellettualità istituzionale, va anche attribuito un peso ai limiti del movimento indipendentista stesso. Che tuttavia, per quanto esistenti e consistenti, non vanno enfatizzati. Molti temi dell’agenda politica sarda odierna, molte analisi, molte cornici interpretative nascono dalla riflessione e dalla proposta politica indipendentista. È un dato storico che solo la mala fede può impedire di sottolineare. Nondimeno, anche lì c’è bisogno di un deciso salto di qualità, come altre volte segnalato.
Detto ciò, è sempre utile provare a chiarire alcuni termini della faccenda, sia come ripasso, sia come contributo a mantenere il dibattito su un terreno costruttivo.
1) Autodeterminazione e indipendenza non sono necessariamente sinonimi, ma in Sardegna la loro connessione è sostanzialmente inevitabile. Per le aree geografiche italiche, storicamente delimitate (Veneto, Mezzogiorno, Toscana, ecc.), può essere valida la distinzione tra i due termini e dunque l’impostazione del discorso sul piano federalista o autonomista. Si tratta di porzioni territoriali di un continuum geografico e anche culturale formatosi nel tempo, nel contesto del quale una forma di coesione e unificazione può portare dei vantaggi. A patto che se ne rispettino vocazioni produttive, tradizioni culturali, caratteristiche climatiche, ecc. La mancata scelta della soluzione federale, al tempo dell’unificazione italiana, era sì conveniente per la nuova classe dominante (il Blocco storico di cui parlava Gramsci), ma era evidentemente una scelta autoritaria, mortificante e alla lunga fallimentare, come si sta rivelando sotto i nostri occhi. La Sardegna in tutto ciò non ha nulla a che fare, però.
2) Quale che sia la forma che assume la questione in Italia, la Sardegna non ne partecipa. Il fattore geografico, sempre sottovalutato, ha la sua rilevanza ineludibile. Persino più del fattore storico e culturale. La necessità dell’autodeterminazione in Sardegna non può essere convogliata detro la cornice federalista, per il semplice motivo che la Sardegna non appartiene al continuum territoriale italiano. Questo fatto comporta una serie di attriti non ricomponibili tra gli interessi strategici sardi e quelli italici: nei trasporti, nel comparto turistico, nella valorizzazione del patrimonio storico-archeologico e demo-antropologico, nel settore agroalimentare, nella produzione e nella distribuzione dell’energia. Quand’anche l’Italia si riformulasse giuridicamente in termini federali, concedendo una forte autodeterminazione alle sue parti, la Sardegna si troverebbe comunque in una condizione di subalternità, se non potesse far valere le proprie necessità strategiche. Ma far valere le proprie necessità strategiche sgnifica spezzare il legame con la sfera degli interessi italiani. Non se ne esce. Conquistare l’autodeterminazione per la Sardegna comporterà necessariamente anche l’indipendenza formale. La discussione dovrebbe vertere sul “come”, non sul “se”.
3) I processi di autodeterminazione delle regioni storiche e delle nazioni senza stato europee non ha nulla a che fare con le spinte nazionaliste, populiste e xenofobe dilaganti in quasi tutti gli stati. Mettere sullo stesso piano fenomeni destrorsi e antidemocratici come la Lega, lo UKIP, il Front National e i vari neofascismi europei è, nel migliore dei casi, un errore di valutazione, nel peggiore invece è una manipolazione interessata. Attenzione: questo giochetto si fa spesso anche in Sardegna. In mancaza di meglio, molti detrattori del processo di autodeterminazione sardo usano questo argomento fallace. Si afferma: ma allora siete come i leghisti! montando su un ragionamento capzioso, che fa leva sulla scarsa capacità comunicativa degli indipendentisti stessi o sulla loro ingenuità, ma soprattutto sulla disinformazione dilagante in merito. In realtà, come è facile verificare, i movimenti indipendentisti democratici (dalla Scozia, alla Bretagna, al Paese Basco, alla Catalogna e anche in Sardegna) hanno l’orizzonte europeo e mediterraneo come riferimento e non fanno proprie le istanze razziste, autoritarie e intolleranti dei nazionalismi di destra e dei fascismi più o meno mascherati. Di più, sono o possono essere il migliore antidoto alla disgregazione politica, sociale e culturale dell’Europa.
4) Chi ha interesse a negare da un lato la legittimità e la ragionevolezza delle aspirazioni indipendentiste democratiche e dall’altra a consolidare lo status quo, ha anche interesse ad alimentare le spinte violente e razziste dei gruppi xenofobi e contrari ai diritti civili. L’attuale apparato di potere europeo garantisce un assetto produttivo e distributivo che favorisce le ristrette élite che dominano l’accumulo di capitali e la ricerca della remunerazione dei medesimi. Questa deriva sarà accentuata di qui ai prossimi anni, se non si pone un argine. Un’Europa democratica, in cui i popoli abbiano voce in capitolo e si possano concordare sistemi di diritti, spazi di movimento, tutela e valorizzazione dei beni comuni è uno spauracchio molto peggiore di qualsiasi deriva populista e razzista. Anzi, come sempre è svvenuto, quest’ultima può essere usata comodamente come strumento di riduzione degli spazi di partecipazione democratica, a vantaggio dell’establishment europeo. Non facciamoci ingannare dalla retorica antieuropeista di leghisti, grillini, nazionalisti e fascisti vari. Come sempre, tutti loro sono la migliore stampella dello status quo, buoni, all’occorrenza, per trasformare la crisi in una rivluzione passiva, che cambi tutto per non cambiare niente.
5) Allo stesso modo in Sardegna, molti che attaccano il processo di autodeterminazione con argomentazioni strumentali, richiamando la necessità della solidarietà e dell’unità, intendono semplicemente garatire l’assetto di potere dominante e la sottomissione dell’isola alla sfera di interessi che la sta sfruttando e desertificando. Pensiamo solo alle servitù energetiche e industriali: grandi investimenti in gioco e la solita, rapace sete di denaro pubblico comportano la necessità che la Sardegna continui ad essere una pedina utilizzabile a piacimento, non certo che esprima una propria soggettività politica. L’intellettualità istituzionale sarda, compresa quella accademica una cui porzione oggi governa la Regione, è del tutto organica a tale sistema di potere, come sottolineato a più riprese.
Naturalmente la questione si può articolare ulteriormente e gli aspetti da chiarire sono tanti. Ma se n’è già parlato spesso, da queste parti e altrove. Per concludere, dunque, possiamo dire questo: è necessario affrontare il discorso della nostra autodeterminazione ed è necessario farlo sgombrando il campo sia dalle ingenuità ideologiche, sia dalle posizioni pretestuose che nascondono interessi consolidati. È una indispensabile assunzione di responsabilità alla quale siamo chiamati tutti, fuori dal recinto dei propri angoli di comfort, dei nostri piccoli interessi di bottega e delle nostre paure. Più è ampio, articolato, aperto e rispettoso il dibattito, più sarà difficile continuare a venderci fumo e pretendere che ci diamo fuoco noi per produrlo.
Complimenti, gran bell’articolo
Nella carta pubblicata in alto manca il mio condominio.
Va rapidamente aggiornata!
Voleva essere un commento ironico? OK, occasione persa. Di questo livello, non ce ne sarà una seconda.