Per comprendere il nostro presente è indispensabile conoscere e tenere in considerazione i fattori storici che lo determinano. Uno dei fattori principali, purtroppo scarsamente indagato, è la funzione degli intellettuali nella Sardegna contemporanea. Facciamo un po’ di storia.
Un momento decisivo da cui partire è senz’altro il ministero di Gian Lorenzo Bogino, tra il 1759 e il 1773. Bogino, animato da intenti riformatori della macchina amministrativa del Regno, sia pure senza alcuna concessione ideologica verso aperture politiche e/o sociali, fu il promotore – tra le altre cose – della rinascita dei due atenei sardi e il responsabile dell’imposizione definitiva dell’italiano come lingua ufficiale in Sardegna. Due scelte che avranno conseguenze ulteriori, riapetto agli intenti del ministro (che, ricordiamolo, non conosceva affatto l’isola né ci soggiornò mai). Nei piani del Bogino le università sarde dovevano sfornare personale burocratico e funzionari pubblici all’altezza delle necessità; l’italiano doveva soppiantare lo spagnolo e con esso tutta la congerie di aspetti ideologici, costumanze e forme di socializzazione ereditata dal passato iberico della Sardegna. Tuttavia, con la prima decisione, Bogino avviò anche la formazione di un ceto intellettuale e giuridico più aperto verso le novità del mondo contemporaneo e in grado di formulare giudizi e propositi critici sull’esistente; molti esponenti di questo ceto animeranno e guideranno la Sarda rivoluzione. L’imposizione dell’italiano, dal canto suo, trovò una certa resistenza, non tanto per via dell’affezione allo spagnolo della nostra classe dominante (in alcuni casi persino al catalano, a dire il vero), quanto perché risultò offensivo, agli occhi di alcuni intellettuali, che si dovesse ricorrere ad una lingua straniera (l’italiano) al posto del sardo, lingua nazionale. Al di là delle polemiche suscitate allora (per altro bellamente ignorate dal Bogino e dall’amministrazione sabauda), questo fatto avrà notevoli effetti anche nel futuro, sancendo una artificiosa separatezza culturale e sociale tra classe intellettuale e popolo (allora e ancora a lungo quasi esclusivamente sardoglotto) e in definitiva la nacita della questione linguistica sarda contemporanea.
La chiusura drammatica della stagione rivoluzionaria avrà come conseguenza anche una modalità di selezione del personale intellettuale (nei ruoli accademici e amministrativi) rispondente a criteri di fedeltà assoluta al regime sabaudo. In età romantica (nel primo Ottocento) gli eruditi e gli intellettuali sardi si trovarono così nella paradossale necessità da un lato di glorificare i Savoia e il loro avvento sul trono sardo e dall’altro di promuovere il riscatto della nazione sarda dall’oblio e dalla sua condizione marginale. Tale compito improbo venne comunque assunto con un certo trasporto ideale, a cominciare da Giuseppe Manno. Presi tra queste necessità difficili da conciliare, molti esponenti del’intellettualità sarda ottocentesca si fecero cogliere da ingiustificato entusiasmo per le famigerate Carte di Arborea, uno dei casi di falsificazione documentaria più clamorosi di tutto il secolo, e non certo solo in Sardegna.
Quasi tutti inquadrati nei ruoli accademici e burocratici, istruiti in italiano (oltre che in latino), i professori, i letterati, i giuristi e gli studiosi appartenevano allora quasi sempre a famiglie aristocratiche o borghesi di stretta osservanza savoiarda. Persino più in là, dopo gli esiti fallimentari della Perfetta Fusione (1847-8) e l’emergere delle prime riflessioni autonomiste, nel complesso l’intellettualità sarda accettò passivamente l’organizzazione del sapere imposta dall’alto e dall’esterno, senza discuterla affatto. L’intellettualità sarda, insomma, anche laddove si fece più critica verso questa o quella misura governativa, restò organica al sistema di potere vigente e contribuì alla sua egemonia culturale. La separatezza rispetto alle istanze popolari se possibile aumentò.
Il fenomeno si evidenzia maggiormente nel Novecento. L’unificazione italiana provocò un forte restringimento dell’orizzonte culturale dell’isola, schiacciato tra il l’ideologia nazionalista del nuovo stato unitario e una cultura popolare ancora molto forte, ma condannata alla folklorizzazione. La storia della Sardegna non comparirà mai nei programmi scolastici e in quelli universitari, mentre la questione linguistica subirà un ulteriore slittamento verso la minorizzazione del sardo e delle altre lingue di Sardegna. Tale fenomeno non sarà affatto contrastato dagli studi che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento interesseranno il sardo, catalogato scientificamente come lingua altra, rispetto al continuum linguistico italico, eppure non meno demonizzato ed escluso da qualsiasi livello di comunicazione ufficiale.
Anche su questo l’intellettualità sarda non ebbe gran che da ridire. Una delle poche voci dissonanti fu quella di Antonio Gramsci, che tuttavia non si occupò mai direttamente e esclusivamente di cose sarde e non poté avere, suo malgrado, alcun impatto su queste dinamiche di dominio nell’isola, finché fu in vita. Gli esponenti del sardismo, dal canto loro, non avevano maturato alcuna consapevolezza dei fenomeni culturali in corso. Erano anzi profondamente tributari verso la formazione intellettuale ricevuta dalla scuola e dall’università italiane e in quanto tali passivamente succubi rispetto al mito identitario allora in piena formazione, lo stesso che ci voleva estranei al corso principale della Storia, portatori di una cultura barbarica e periferica, esotica e pittoresca ma anche minacciosa. La pretesa di riscatto che il Partito Sardo di Azione intedeva incarnare sul piano politico si basava tragicamente sull’adesione convinta ai precetti della nostra inferiorità razziale, come traspare dagli scritti dei leader sardisti. In tale situazione era tanto più difficile attendersi spiragli di cambiamento da parte delle istituzioni culturali ed accademiche ufficiali.
Le cose non cambiarono nemmeno a guerra finita e ad autonomia regionale conquistata. Il controllo ferreo che i partiti italiani maggiori (DC e PCI) ebbero sullo scenario politico e culturale sardo è stato sempre evidente, benché il sardismo e l’autonomismo abbiano giocato un ruolo trasversale di non poco peso. Tuttavia l’alfabetizzazione di massa e il maggiore accesso agli studi universitari cominciati nel secondo dopoguerra hanno anche consentito a sempre più sardi, di varia estrazione, di accedere a strumenti critici fin lì appannaggio di una èlite molto ristretta. Ciò ha compostato la decisa, definitiva marginalizzazione della cultura popolare e della lingua sarda (soprattutto in un primo tempo), ma anche, dagli anni Sessanta in poi, una loro riscoperta.
È maturata da allora una visione meno subalterna della nostra parabola storica e del nostro patrimonio culturale, pur senza arrivare a un ribaltamento dei rapporti di forza verso l’apparato egemonico vigente. C’è pur sempre da constatare che le voci più consapevoli e più originali del panorama intellettuale sardo contemporaneo hanno avuto poco spazio, se non occasionalmente e in posizioni minoritarie, tanto nei ruoli accademici, quanto nell’ambito dei mass media principali. I vari Mialinu Pira, Bachis Bandinu, Antoni Simon Mossa, Placido Cherchi, Cicitu Masala, Eliseo Spiga (per citare i più noti) si sono sì ritagliati una propria possibilità di voce pubblica, ma sempre dentro una nicchia intellettuale non pienamente riconosciuta dai detentori del dominio culturale. Parziale eccezione è stato Giovanni Lilliu, le cui posizioni culturali e politiche, però, sono sempre state attente a non scardinare l’assetto dominante e anzi, per certi versi, che lo volesse o no, hanno contribuito ad irrobustirlo.
La parte maggiore di responsabilità, in tutto ciò, spetta certamente agli storici. Gli storici sardi sono stati molto attenti a non mettere mai in discussione l’organizzazione del sapere da cui essi stessi traevano legittimazione. Per farlo hanno dovuto ovviamente accettare le cornici concettuali imposte dall’apparato accademico italiano. Non sono pochi i casi di autocensura o di interpretazioni forzate nel corso dell’ultimo secolo e ancora in anni recenti. È un problema molto serio, questo, di cui si è già avuto modo di parlare e che rimane purtroppo largamente irrisolto.
L’ambito più strettamente letterario merita a sua volta un discorso a parte. La letteratura sarda contemporanea ha avuto una evoluzione complessa e a volte contraddittoria. Oggi è senz’altro un elemento rilevante del nostro contesto intellettuale, sia per quantità sia per qualità. Ma anch’essa nel suo insieme non sfugge al problema in esame.
Nel suo complesso ancora oggi la categoria intellettuale sarda, pur nella sua eterogeneità, è profondamente organica al sistema di potere vigente. Una dimostrazione impressionante di questo fatto sono state le recenti elezioni regionali, in cui non solo essa si è massivamente posizionata su un versante conservatore, a favore dello status quo, ma addirittura un gruppo di potere accademico è ruscito a imporsi ai partiti, approfittando della debolezza della loro leadership e della loro inconsistenza politica, e a insediarsi ai vertici dell’amministrazione regionale. Del resto il connubio tra università e potere in Sardegna è tradizionalmente molto stretto. Non possono sfuggire nemmeno le evidenti consonanze tra posizioni accademiche, proposizioni politiche e grumi di interessi consolidati di natura non certo pubblica e quasi mai sarda. Se si tratti di mere consonanze o di complicità diretta non è questa la sede per stabilirlo, naturalmente. Il dato però è da registrare.
L’intero apparato egemonico su cui si regge la condizione di dipendenza della Sardegna è dunque da tempo convalidato e giustificato dal ceto intellettuale sardo. In questo senso esso è ancora perfettamente organico al potere dominante. Le eccezioni confermano la regola e di solito non trovano molto spazio nei ruoli unversitari, sui giornali, nel discorso pubblico. Del resto immaginare che la selezione del personale accademico avvenga secondo criteri diversi, migliori quanto ad etica, trasparenza e senso di responsabilità pubblica rispetto alla selezione del personale politico purtroppo è una pura illusione. Anche in questo ambito la Sardegna, quanto a opacità dei metodi, familismo e nepotismo, scambio di favori, demeritocrazia, non è certo messa meglio dell’Italia. Anzi, con tutta probabilità è messa peggio. Che una parte di questo ceto intellettuale-accademico sia oggi al governo dell’isola, tra l’altro in evidente stato di colleganza col governo italiano, non può che indurre serissime preoccupazioni in chiunque non abbia qualcosa da guadagnare da tale sistema di spartizione e dominio, o non abbia portato il cervello all’ammasso.
Naturalmente questo quadro fosco non è esaustivo. Se in passato, anche nel recente passato, le voci dissonanti erano poche, marginali o marginalizzate e inevitabilmente ripiegate su questioni di riscatto identitario, oggi si profila una situazione diversa, più aperta. La nostra diaspora intellettuale è impressionante, quanto a numeri, e dentro la quantità è inevitabile che emerga anche una qualità maggiore. Ma anche sull’isola le cose vanno cambiando. Una più diffusa consapevolezza della nostra storia e un approccio più critico al nostro mito identitario debilitante stanno indebolendo le strutture dell’egemonia culturale che fin qui ci ha dominati. La saldatura tra movimenti popolari di difesa del territorio e istanze culturali e politiche di forte critica all’esistente sta generando uno spazio politico nuovo, alternativo al campo di forze che hanno fin qui avuto vita facile a controllare la situazione. Non siamo ancora in presenza di un rovesciamento dei rapporti di forza, ma se ne intravede la possibilità storica. È un processo che va alimentato e allargato, perché sarà decisivo, nel prossimo futuro. Anche da qui passerà la nostra autodeterminazione.