È mai esistita la politica in Sardegna?

Nell’epoca contemporanea uno dei fattori dominanti è il sistema economico capitalista. Fattore storico di lunga durata, sorto fin dal medioevo nelle aree demograficamente ed economicamente più dinamiche dell’Europa, il capitalismo ha avuto i suoi trionfi negli ultimi duecento anni, specie in conseguenza dell’affermazione sia economico-finanziaria sia politico-militare prima del Regno Unito di Gran Bretagna, poi degli USA. Fino agli anni Settanta del Novecento, ha dovuto fare i conti con fattori storici a esso speculari, alimentati da dinamiche di tipo ideologico e geostrategico (che hanno visto nella Guerra fredda il loro apice), ma non ha mai veramente subìto la concorrenza di modelli produttivi e distributivi strutturalmente diversi. In fondo, il socialismo reale si è limitato a porre l’accumulo di plusvalore in capo allo stato, anziché ai privati, senza modificare il meccanismo profondo del ciclo capitalista, se non in peggio, esaltandone i difetti e tarpandone le caratteristiche virtuose. La notizia di questi giorni relativa all’imminente sorpasso della Cina sugli USA nella classifica delle maggiori economie del mondo conferma che non c’è alcuna reale controindicazione tra un regime totalitario a partito unico, nominalmente socialista, e la forma più classica di capitalismo.

Se però il capitale e il capitalismo sono sempre i medesimi, rispondono cioè sempre e solo alla medesima logica brutale dell’accumulo e della riproduzione, secondo la legge del massimo profitto, com’è possibile che tali costanti storiche abbiano avuto esiti così diversi da una parte all’altra del pianeta? Come mai la logica del capitale ha potuto affermarsi in termini egemonici sia nelle democrazie europee, sia nei paesi decolinizzati dell’ex Terzo mondo, sia in paesi a vocazione imperiale e autoritaria? E cosa fa la differenza, allora?

A volte la risposta a questi quesiti è che non esiste un solo capitalismo ma che ne esistono diverse tipologie. Ossia, il capitale non funziona sempre allo stesso modo, da un’area geografica e storica a un’altra. Dal che alcuni traggono la conclusione che il capitalismo e la logica del capitale siano sostanzialmente fattori storici neutri e che i loro effetti discendano dalla modalità con cui si applicano e dal contesto su cui incidono. La dottrina economica dominante arriva addirittura a teorizzare l’intrinseca bontà del capitalismo, come il migliore dei modelli possibili, se solo lo si lasciasse funzionare liberamente.

In parte queste posizioni colgono un dato reale. È vero che non esiste una sovrapponibilità perfetta nemmeno tra i paesi in cui sia vigente un sistema economico capitalista e che abbiano regimi politici simili. Apparentemente si può vivere in una economia capitalista (spesso erroneamente definita “di mercato”) e subirne effetti diversissimi a seconda del paese in cui si vive. Tuttavia questo dato non attiene tanto alla natura intrinseca del meccanismo capitalista, quanto piuttosto alla forza degli altri fattori storici con cui in capitale ha a che fare. Quel che limita e rende più malleabile il sistema di produzione e di distribuzione capitalista, insomma, non sono meccanismi interni che vengono applicati in un modo o nell’altro, ma più precisamente i limiti e gli attriti frapposti da altri fattori al pieno dispiegarsi della logica del capitale.

Che, come detto, in sostanza rimane sempre la medesima e in sé non ha alcun meccanismo di autolimitazione. Il procedere dall’accumulazione alle forme di riproduzione, fino alla consunzione delle risorse è un meccanismo automatico che trova un limite solo nella propria conclusione spontanea. A livello storico e planetario ciò significa che un meccanismo capitalista puro, lasciato a se stesso, condurrebbe inevitabilmente al consumo di tutte le risorse disponibili, all’azzeramento di tutti i fattori produttivi e a un saggio di profitto nullo. Il pericolo che questo possa accadere – con le relative conseguenze sull’ecosistema planetario e sulla sopravvivenza della nostra stessa specie – sono più evidenti che mai in questi anni, in cui l’egemonia capitalista si è potuta realizzare con molti meno freni di quanti ne abbia mai avuti.

Dov’è e com’è allora che tale meccanismo trova limiti e un contenimento virtuoso, o almeno sufficiente ad attenuarne gli effetti peggiori? Si può notare che esistono paesi in cui, pur in presenza di un’economia capitalista sostanzialmente libera e anzi alquanto solida, pure il regime dei diritti, dei rapporti sociali e della distribuzione del reddito è efficace e tendente all’eguaglianza sostanziale e persino a un certo rispetto per l’equilibrio ambientale. Pensiamo ai paesi scandinavi, tanto per fare l’esempio più evidente. In questi casi hanno un ruolo molto forte fattori storici di natura non direttamente economica, bensì culturale e politica. Tali fattori sono tradizionalmente relegati al livello sovrastrutturale, da alcune scuole di pensiero marxiste. Il che però non rende gustizia dei processi storici così come si sono svolti nel tempo e nello spazio. In realtà tali fattori hanno un peso determinante nel contenere la realizzazione spietata della logica capitalista pura. La stessa efficacia del modello capitalista dipende da tali fattori, in un legame che è più complesso del rapporto lineare e unidirezionale ipotizzato da Marx per un verso e da Weber in senso inverso. Spesso si tratta di fattori e stratificazioni culturali preesistenti allo sviluppo e alla diffusione del capitalismo stesso.

Di fatto, la politica e la cultura sono elementi determinanti e strutturali nelle condizioni storiche in cui si ralizza l’esistenza delle collettività umane. Dove questi fattori non siano robusti, saldati in un rapporto stretto tra accumulo di esperienza e di memoria storica e modelli produttivi dominanti, è troppo facile per la ferrea meccanica del capitale trovare strada libera per i suoi effetti più deleteri, che anzi in situazioni di debilitazione culturale e/o politica vengono accresciuti. Un esempio evidente, in questo senso, è l’Italia, in cui l’imposizione del modello capitalista è avvenuta in termini forzosi e sulla base di interessi spesso totalmente estrinseci al tessuto storico su cui incidevano (questa è una generalizzazione che non tiene conto di casi specifici e della complessa articolazione storica, beninteso). Al di là degli esiti economici, così diversi da area ad area dello stato, di fatto in Italia prevale un sistema economico basato sull’accumulo violento o fraudolento, comunque rapace, sulla sistematica violazione di norme giuridiche e/o etiche, sul disinteresse per qualsiasi sfera di valori e interessi che esulino dal tornaconto diretto e immediato di chi cotrolla e gestisce (in modo lecito o illecito poco conta) i flussi e gli stock di risorse. Il cosiddetto “sistema Italia” (definizione impropria, ma di comodo) si fonda sulla diseguaglianza delle condizioni di partenza, sull’imposizione autoritaria (o tramite la persuasione o tramite la forza) della volontà e degli interessi dell’elite dominante, sulla riproduzione delle posizioni di vantaggio basata su una dinamica sociale lentissima o del tutto bloccata, condita di nepotismi, familismi e corruzione diffusa.

Se questo è vero per l’Italia, tanto più è valido per la Sardegna. Entrata nella contemporaneità in malo modo, dopo la sconfitta della rivoluzione, attraverso un processo di restaurazione autoritaria e di soffocamento degli elementi più dinamici ed “espansivi” (per dirla con Gramsci) della nostra società, l’isola ha subito l’applicazione brutale di meccanismi di rastrellamento delle proprie risorse e di destinazione delle stesse a vantaggio di fattori produttivi e interessi esterni, con la complicità della nostra classe dominante, votata al ruolo di intermediazione tra tali apparati di interessi e il territorio sardo. Dall’Editto delle chiudende fino ai Piani di Rinascita o alle recenti speculazioni energetiche, la classe dominante sarda ha ricevuto la propria legittimazione e la propria forza sempre e solo nella misura in cui ha consentito che la Sardegna restasse un oggetto storico in balia di interessi altrui, certamente anche per il proprio tornaconto di classe, di gruppo e di famiglia. Di fatto, dunque, il sistema economico contemporaneo in Sardegna, così come è stato imposto e strutturato, non può nemmeno considerarsi un vero sistema economico, bensì la mera giustapposizione di fattori produttivi mal connessi tra loro e totalmente asserviti a scopi e obiettivi che quasi mai hanno a che fare col territorio e col tessuto sociale e culturale dell’isola.

Uno dei nostri problemi fondametali, dunque, è che negli ultimi duecento anni in Sardegna non è mai sostanzialmente esistita la politica. La politica intesa sia come rete di relazioni civiche e sociali che fanno capo a un contesto territoriale definito, sia come come forma dialettica di confronto e selezione tra forze sociali, prospettive ideali e interessi diversi, dentro uno spazio storico e geografico condiviso. Quel che ha preso tale nome è una sorta di rappresentazione, realizzata servendosi di denominazioni e di etichette esogene e calate dall’alto, che sono servite a mascherare le dinamiche reali della nostra collettività e i reali rapporti di produzione e di forza sia interni sia con l’esterno. L’unico momento in cui si è generata una forza politica di massa in grado di erodere il modello dominante (nei primi anni Venti del Novecento col PSdAz) tale forza è stata debilitata e limitata nelle sue pure evidenti istanze virtuose dalla sua stessa dirigenza, più propensa a rivendicare un riconoscimento esterno e una ammissione nel continuum storico, culturale, politico ed economico italiano che a realizzare, secondo i fattori reali in gioco e sulla base di una visione di prospettiva, l’emancipazione sociale, culturale e politica dell’isola.

Mancata quell’occasione, anche nel periodo dell’autonomia regionale in realtà il modello vigente è sempre stato il medesimo, mutatis mutandis: quello ereditato dalla Restaurazione sabauda. I partiti italiani che hanno egemonizzato lo scenario sardo dal secondo dopoguerra hanno garantito l’assetto di interessi vigente, specie laddove – a volte in buona fede – assecondavano gli interessi più rapaci e i meccanismi più devastanti per il nostro tessuto produttivo autoctono e per il nostro tessuto sociale e culturale, producendo disastri di cui oggi paghiamo le amare conseguenze. Senza considerare la passività (questa sì colpevole) verso l’asservimento militare dell’isola e verso il processo di acculturazione forzosa a cui è stata sottoposta (che ci ha sottratto la nostra storia e il nostro patrimonio culturale, a partire da quello linguistico).

Si può dunque affermare, certamente con una semplificazione ma senza manipolare alcun elemento fattuale, che in Sardegna negli ultimi duecento anni siano mancati i meccanismi e i fattori storici che potessero incanalare la forma di sviluppo economico capitalista entro un alveo di sostenibilità e di crescita spontanea, sulla base di risorse e fattori endogeni. Pur senza soffermarci su una critica politica al modello capitalista in quanto tale, è evidente che esso in Sardegna ha trovato una applicazione brutale e devastante: pensiamo ai danni prodotti dal consumismo, dalla cultura televisiva di massa e dal turismo in stile Costa Smeralda su un tessuto sociale e culturale già di suo debilitato come il nostro (effetti ben individuati da Mialinu Pira e Bachis Bandinu, in particolare). D’altra parte, quel che resta, a livello ambientale, culturale e sociale oltre che economico, nelle aree interessate dall’industrializzazione e dalle servitù turistiche e militari è sotto gli occhi di tutti.

Per questo è più doveroso che mai, oggi che percepiamo distintamente sia la radice dei nostri problemi strutturali, sia l’approssimarsi dei loro esiti finali, prendere innanzi tutto coscienza di queste dinamiche, della loro radice storica e del loro procedere, ancora in atto, ma anche adottare le contromisure culturali e politiche necessarie. Per questo, come già detto qui e altrove, è indispensabile aprire e tenere vivo un ampio fronte politico, sociale e culturale il cui collante sia la lotta senza quartiere alla dipendenza e alla subalternità, a tutti i livelli, dai comitati di quartiere alle coalizioni elettorali, fuori dagli schemi e dai meccanismi imposti dall’apparato di potere dominante, rappresentato dai partiti italiani e dai loro sodali locali. Dobbiamo restituire alla Sardegna uno spazio politico suo, dobbiamo generare, per la prima volta da oltre duecento anni, una vera politica sarda, che tenga conto tanto delle nostre peculiari condizioni storiche e geografiche, quanto delle relazioni con ciò che ci circonda, secondo un processo di riappropriazione del nostro patrimonio storico-culturale e tenendo conto delle articolazioni e della dialettica interna della nostra società, lontano da modelli reazionari e nazionalisti di stampo romantico o novecentesco (che pure stanno tornando in auge in Europa, come risposta – sbagliata e controproducente – alla crisi attuale) e esaltando la partecipazione e la responsabilizzazione di fasce sociali sempre più ampie. Solo così si potrà dare una risposta realmente emancipativa e liberante alle difficoltà della presente transizione storica, dalle quali altrimenti finiremo soffocati.