Parigi, primavera 1801
L’Esule guardava fuori dalla finestra, aperta su un panorama diseguale di case, fumo e cielo color indaco. Soppesava le parole appena sentite, le legava ad altre, le connetteva a immagini: una piazza stracolma di folla esultante; un campo desolato con le tracce fresche di uomini, animali e carri; l’oscurità di un bosco attraversato di notte, in fuga. Non era sorpresa, quella che provava, ma frustrazione e un cattivo presentimento.
– Così siete decisi ad andare fino in fondo – disse, senza voltarsi verso il suo interlocutore.
La stanza era in penombra, invasa dal crepuscolo. La piccola finestra spalancata non bastava a contrastarlo. Le candele non erano ancora accese e nemmeno l’unico lume ad olio. L’uomo massiccio, seduto su una delle due sedie impagliate presenti, era quasi solo una sagoma indistinta.
– Sì – rispose l’Ospite. – Ho ricevuto la conferma definitiva ieri, alle prime luci, con un messaggio arrivato dritto da Ajaccio, via Marsiglia.
– Il cittadino Guy dice che…
– Lo so cosa dice il cittadino Guy, ma il tempo dell’attesa è finito. O facciamo qualcosa o non ne parliamo più.
– Ma il mio memoriale è ancora nelle mani del segretario del consigliere – riprese l’Esule, voltandosi finalmente verso il centro della stanza. Solo allora si rese conto dell’oscurità incombente. Con pochi gesti rapidi accese il lume ad olio e uno dei mozziconi di candela ancora utilizzabili. Se fosse stato da solo, c’era da scommetterci, il lume sarebbe rimasto spento. – Il mio memoriale – riprese – è ancora lì, dove può essere letto e preso in considerazione. Non dispero che si possa dar corso a quanto propongo. Gli incidenti dell’anno scorso non si ripeteranno.
L’Ospite emise un sospiro. La fioca luce della candela ne mostrò il sorriso scettico. Non rispose direttamente. Invece disse: – Non è paradossale che, mentre noi aspettiamo l’appoggio della Francia per sostenere la nostra rivoluzione, i nostri fratelli corsi, per conquistare la loro libertà, intendano liberarsi proprio della Francia?
– Paradossale, sì – ammise l’Esule, andando a sedersi sul bordo del letto di ferro. – Ma anche noi abbiamo combattuto la Francia quando si è presentata come invasore e non come protettore.
– Noi? – disse l’Ospite. – Anche voi?
– Non guidavo le milizie, se è questo che volete farmi dire, né ho esortato qualcuno a prendere le armi, lo sapete. Ma nessuno può affermare in buona coscienza che mi facesse piacere uno sbarco in forze a due passi da Cagliari. Non erano questi gli accordi che avevamo allora.
– Pare che gli accordi con noi da queste parti siano fatti per essere traditi, non vi pare? O vi siete dimenticato di Cherasco e di quel che ha significato?
L’Esule non replicò subito. Era stato un colpo basso. – Potete credere davvero che me ne sia dimenticato? L’ho scritto chiaro anche nel memoriale. Le conseguenze di quella pace inaspettata le ho pagate tutte sulla mia pelle. – Si voltò verso la finestra, soffocando un moto di rabbia. Si avvide che era ancora aperta e si alzò per chiuderla. L’aria era fresca e non aveva più legna per il piccolo camino della stanza. Poi sedette di nuovo. – Ma in ogni caso ho paura che un’azione come la vostra non faciliterà le cose. Oltre… a temere per voi. Per voi e per gente come quel ragazzo che vi ha accompagnato.
– Antoni? È figlio di una mia cugina. L’ho battezzato, è mio figliocco. È scappato in Corsica e lì mi ha trovato, il mese scorso. L’ho portato a vedere la capitale della Rivoluzione. – L’Ospite sorrise. Poi riprese, in tono più perentorio: – Sia come sia… Per me non avete nulla da temere. E nemmeno per lui o chiunque altro. Siamo mortali e prima o poi tocca a tutti, in un modo o nell’altro. E non sarà mai troppo presto per nessuno. Che almeno abbia un senso, non vi pare? Per il resto, comprendo la vostra insistenza a coltivare i vostri appoggi politici, ma perdonatemi se dubito che da quella parte otterremo mai niente. Sapete anche voi come stanno andando le cose. Non siamo più nel ’96 e nemmeno nel ’99. Né qui, né in Sardegna. Avete idea di cosa sta facendo la corte piemontese a Cagliari? Immagino che non abbiate scordato quel che è successo a Thiesi, a Santu Lussurgiu e negli altri villaggi insorti, dopo che i Savoia sono riparati in Sardegna. Ebbene, quello era solo un assaggio. La repressione non guarda in faccia nessuno. I vostri corrispondenti sull’isola sono quasi tutti spiati e alcuni, come forse già sapete, trascorrono il tempo a difendersi dai topi nelle segrete del Castello di Cagliari o ovunque ci sia una prigione. Se aspettiamo, le forze della giustizia e della libertà saranno soffocate per sempre.
– No, questo non voglio crederlo – rispose l’Esule, rimettendosi in piedi. Prese a percorrere la stanza da una parete all’altra, evidentemente a disagio. – Non posso pensare che i sardi rinuncino così alla propria libertà – riprese. – Troppe forze sono state sollevate, troppa violenza è stata perpetrata. Chi può più illudersi che la tirannide dei Savoia possa mai portarci qualcosa di buono?
– Caro amico, qui non è questione di credere o no. Sapete bene che feudatari, vescovi e buona parte della nostra borghesia più illustre avevano già fatto atto di sottomissione prima del marzo del 1799, o come diavolo si chiama nel calendario rivoluzionario. Quando i Savoia in fuga sono sbarcati a Cagliari, chi aveva privilegi da proteggere aveva già fatto la sua scelta. L’atto di ritirare le Cinque Domande parla chiaro: si voleva riconquistare la fiducia della casa regnante e assicurarle la massima fedeltà. Cosa credete? Tutti questi signori si augurano che i Savoia levino le tende al più presto, in modo da poter rimanere i soli padroni sull’isola. Per giunta più forti e più sicuri che mai, anche grazie alla loro fedeltà ai piemontesi. Non illudetevi. Hanno tutti un animo da podatari, non da governanti. E tenete anche conto della propensione umana ad adattarsi alle circostanze. Troppi anni di conflitto, di repressione, di stenti, fiaccheranno anche gli animi più accesi per la rivoluzione. Basterà una carestia in più, non importa se voluta dal Cielo o dagli uomini, e molte forze svaniranno. Tra breve non ci sarà più nessuno a preferire il rischio della vita e dei beni per qualcosa di così aleatorio come la libertà o l’eguaglianza di fronte alla legge. Della fratellanza non parliamone nemmeno. Tanto più che anche in Francia il vento è cambiato. I giacobini, dopo gli attentati al Primo Console, sono nemici dello stato e Dio solo sa quanto poco ci avvantaggi ora la nomea di giacobini che voi e tutti noi ci portiamo immeritatamente addosso.
L’Esule si fermò. Tornò a sedersi sul letto, di fronte all’Ospite. – Insomma, – rispose, – voi ritenete che si debba provare a sollevare tutto il nord dell’isola subito, nei prossimi mesi, e con le sole forze di cui disponiamo…
– Che è più di niente.
– Che è molto meno di quanto sarebbe sufficiente!
– Non se riesce la prima sollevazione. Se prendiamo Tempio, la Gallura è nostra. E se arriviamo a Sassari, potremo far sollevare mezza Sardegna, in attesa che la Francia si decida o che i Savoia se ne vadano per proprio conto.
– Servono appoggi in loco. Avete pensato a garantirvi uno sbarco sicuro? I primi giorni dovrete stare molto attenti.
– Ci trasferiremo a Bonifacio, anzi qualcuno di noi è già lì. Abbiamo un contatto in Gallura. Un contatto che definire sicuro è un azzardo ma che se non altro può consentirci di mettere piede sull’isola e radunare le forze.
L’Esule meditò per qualche istante. – Mi domando cosa ve lo faccia fare… – riprese dunque. – Qui avete una posizione. So che non è ambizione personale, quella che vi spinge.
– Forse è la stessa cosa che lo fa fare a voi, non credete?
– Non lo so… Ripenso a ciò che ho lasciato e mi viene in mente solo qualche immagine, qualche ricordo. Ciò che mi manca è il mio magazzino nuovo, dove avevo in animo di custodire le balle di cotone tratte dalla mia piantagione. È lo sguardo di prete Muroni, un momento prima di arringare la folla. È quel ragazzo di Silanos che piangeva quando dovemmo scappare da Macomer per la cattiva accoglienza riservataci… E le promesse fatte e non mantenute, le persone che sono state uccise o imprigionate per una fedeltà così… così mal ripagata.
– Capisco, ma non dovreste vivere nei rimpianti. Almeno finché c’è la speranza di poter fare qualcosa.
– Ne abbiamo già parlato: alla speranza preferisco un buon piano e dei calcoli precisi.
– Lo so, ma i calcoli non garantiscono comunque la riuscita, così come non assicurano la sconfitta.
L’Esule fece per dire qualcos’altro ma si fermò. – Quante volte dobbiamo fare la stessa conversazione? – disse dunque, divertito.
L’Ospite rise, di una risata piena e solare. – Ho sempre ammirato la vostra capacità di mescolare prudenza e ambizione – disse poi. – Ma avete potuto constatare che la nostra ragione non è abbastanza grande per contenere tutto il possibile. Il mondo è più grande e terribile di quanto possa concepirlo la nostra filosofia.
– A che cosa affidate la riuscita dell’impresa, allora? Alla divina provvidenza?
– Perché no? Ma in realtà anche io confido abbastanza in un buon piano e nella lealtà degli uomini. Diciamo che è un tentativo che intendiamo fare per non lasciare troppo in pace i piemontesi e i traditori che li spalleggiano. Vada come vada, devono sapere che non si libereranno facilmente di noi.
– Ma se fallite ne trarranno l’impressione della nostra debolezza e della propria forza. Non sarebbe peggio?
– Non se tra i sardi sopravvive l’idea di poter reagire ai soprusi e alla tirannide.
– Siete ottimista, mi sembra di sentire i discorsi di Pangloss… Avete letto quel racconto del signor Voltaire, Candide?
– Sì, lo lessi, anni fa. Se non sbaglio alla fine dice che dobbiamo coltivare il nostro giardino. Ecco, noi semplicemente non abbiamo intenzione di abbandonare il nostro giardino all’erbaccia piemontese e alla gramigna feudale.
– Siete deciso, allora?
– Sì.
– E non intendete consentirmi di venire con voi.
– Ve l’ho scritto chiaro e ve lo ripeto ora: non è opportuno. Voi ci servite vivo e il più lontano possibile dalle forche dei Savoia, che siano maledetti in eterno. Quando la situazione lo consentirà, potrete raggiungerci. E non sarete accolto come un pericoloso criminale, ma come un liberatore. Con o senza il beneplacito dei francesi. L’unico motivo per cui sono tornato a Parigi in questi giorni era per vedervi di persona e rassicurarvi sull’andamento delle operazioni. Indietro non si torna.
L’Esule non aveva altro da chiedere né da aggiungere. La conversazione si concluse così. Poche parole di commiato e una stretta di mano suggellarono il loro saluto. Sarebbe stato definitivo.
Sardegna, estate 1802
Paura, impotenza, orrore, compassione. Antoni spiava da dietro la siepe una scena che suscitava in lui sentimenti contrastanti e tutti violenti. Gli uomini di Villamarina sembravano divertirsi un mondo. Avevano appeso il prigioniero a un albero, nudo fino alla cintola, e lo fustigavano con scudisci da cavallo.
– Stai giù e non fare rumore – gli aveva detto Cillocco, nel suo sardo meridionale, un po’ nasale, quando avevano capito di essere in trappola. – Prenderanno me e saranno contenti. Nessuno verrà a cercarti. Appena puoi, scappa lontano.
Invece lui non era scappato. Aveva aspettato che le voci si allontanassero. Aveva percepito il suono sinistro dei colpi di bastone, o forse era il calcio dei moschetti a sbattere sulle ossa del fuggiasco catturato. Quando il silenzio era tornato, Antoni aveva sbirciato fuori dalla capanna di canne e frasche in cui si erano rifugiati per la notte. Nessuno in vista. Aveva aspettato ancora un poco. Sentiva le cicale cantare tutt’intorno, indifferenti. Un’armonia di campanacci segnalava un gregge non lontano. Faceva caldo ormai. Poi era sgattaiolato via. L’esperienza da servo pastore gli era servita. Le tracce erano chiare, per chi sapeva vederle. A trovarli ci aveva messo poco. Nel cortile di uno stazzo, adibito ad alloggio per il drappello che avevano mandato a prenderli, quattro aguzzini in maniche di camicia, armati di bastoni e scudisci stavano picchiando e seviziando colui che fino a quella mattina era l’uomo più ricercato e anche, per tanti, il più temuto dell’intera Sardegna. Francesco Cillocco, pesto e sanguinante, si lamentava flebilmente, ma non rispondeva alle domande che gli facevano. Non che gli sarebbe servito, del resto.
Antoni soffocò il pianto e si allontanò, silenzioso. Appena poté farlo senza timore di essere visto o sentito, si mise a correre, prima saltando tra sassi e macchia, poi su un viottolo tra i pascoli. Trovata una fonte, vi si abbeverò e si lavò via polvere e turbamento. Con la polvere fu più facile. Gli tremavano le gambe, aveva fame. Non conosceva quei luoghi. Sapeva più o meno ubicarsi rispetto a casa sua, molte miglia più a sud. Decise che per Cillocco, non poteva fare più niente, così come era successo per suo padrino, a Longone. Almeno suo padrino era morto quasi subito, per la ferita da moschetto. Per Cillocco non sarebbe stato così semplice, lo sapeva. Cercò di non pensarci. Cercò di capire cosa fosse meglio fare. Seduto sul bordo del vascone di granito, l’unica cosa che gli passava per la mente con insistenza era il desiderio di tornare a casa. Ma casa era lontana e tornare avrebbe significato mettere in pericolo la sua famiglia, i suoi conoscenti. L’unica cosa da fare era sopravvivere in qualche modo, tornare verso il mare senza essere fermato e trovare un passaggio per la Corsica. Questa gli sembrò l’idea migliore. Ma la sorte di Cillocco lo angustiava. C’era anche una sorta di macabra curiosità, nel suo desiderio di tornare sui suoi passi per vedere cosa gli avrebbero fatto. Comunque a casa ci sarebbe tornato, di questo era certo. Per quanto tempo ci fosse voluto, per quanti stenti, patimenti e pericoli avesse dovuto affrontare, sarebbe tornato a casa. Ma non ora.
Parigi, autunno 1802
Quando gli arrivò la prima notizia, l’Esule era reduce da due notti di sogni inquieti. Un biglietto laconico con poche parole, in francese: “Tutto è perduto”. Poi altre notizie erano arrivate nel corso dell’estate. Particolari si erano aggiunti via via, a precisare un quadro di massima che nella sua mente si era già disegnato con contorni ben stagliati. Sanna Corda morto. Il tradimento della banda di fuorilegge. Gli insorti dispersi. La fuga di Cillocco. La sua cattura e la sua morte atroce. E ora, l’annuncio di una visita, qualcuno che era stato lì, che aveva visto coi suoi occhi. A che pro dargli udienza? Come se non fosse già tutto definitivamente chiaro. E così doloroso.
Si costrinse ad alzarsi dal letto, a cui la debolezza e gli accessi di tosse lo costringevano sempre più di frequente. La solitudine era la sua unica compagnia abituale, ormai. La cerchia degli esuli sardi in Francia si era ristretta col tempo. Molti erano partiti al seguito di Sanna Corda e non sarebbero più ritornati. Solo pochi erano rimasti, in attesa di notizie e di una prossima occasione. Chissà se ce ne sarebbe mai stata una.
L’Esule indossò la lisa veste da camera e uscì, diretto alla latrina. Gli sembrava che il tempo fosse andato avanti per la sua strada, negli ultimi tre anni, e lo avesse lasciato indietro, come residuo di un’epoca ormai finita. Strana sensazione, dato che l’Europa bruciava di fuochi rivoluzionari.
Di ritorno alla sua camera, trovò ad attenderlo due persone. Una era il giovane che aveva accompagnato Sanna Corda in occasione del loro ultimo incontro, l’altro uno dei suoi conoscenti esiliati.
Fu quest’ultimo a parlare. – Don Angioy! – salutò con deferenza, in francese, com’erano abituati a fare da tempo. – Lui è Antoni Falcone, figliocco di Don Sanna Corda. È arrivato a Parigi ieri, da Marsiglia e ha insistito molto per conferire subito con voi. Per questo il mio biglietto di stamattina… Parla poco il francese, solo il sardo a dire il vero.
– Capisco – disse l’Esule. – Prego entrate. – Guardò il giovane fuggiasco. – Ascolterò tutto quello che avete da dirmi – gli disse in francese.
Antoni annuì. Aveva capito. Aveva capito anche la fatica con cui Don Angioy accettava di ascoltarlo e la sua sofferenza. Non solo quella fisica, che era evidente, ma anche quella dell’anima.
Poco dopo, senza molti convenevoli, Antoni prese a riferire tutto ciò di cui era stato partecipe o testimone fin dalla primavera dell’anno precedente. I piani, gli accordi, il primo sbarco in Sardegna, riuscito ma tradottosi in una fuga quasi immediata. Il secondo, riuscito meglio, ma disgraziatamente subito complicato dal sopraggiungere di una imbarcazione di ronda presso la costa di Longone. La morte di Sanna Corda, armi in pugno, lui che era prete e teologo, prima che rivoluzionario. E poi il tradimento di Mamia, falso e bugiardo come pochi, che potesse soffrire in un’agonia senza fine. Lui, Antoni, era riuscito a raggiungere Cillocco dopo qualche giorno di fuga, grazie alla protezione dei patrioti locali. Erano rimasti assieme per diverso tempo. Si erano divisi, si erano ritrovati. Gli sgherri dei Savoia e dei baroni non avevano esitato a uccidere ostaggi innocenti pur di farsi consegnare il fuggiasco da chi lo nascondeva e proteggeva. I genitori di uno dei giovani messi a morte avevano preferito scaricare il loro odio su chi era lì per difenderli, anziché sui veri colpevoli del loro lutto. E così era stato. Cillocco era stato catturato grazie alla loro delazione. E poi le torture, il viaggio verso Sassari. L’esecuzione. Antoni aveva assistito direttamente a tutto, in un modo o nell’altro. Il suo accompagnatore traduceva in francese molti tratti della sua testimonianza, quando l’Esule ne faceva richiesta, con un cenno. Antoni spiegò che al momento della cattura di Cillocco aveva pensato di fuggire di nuovo in Corsica, ma poi aveva esitato. Era rimasto nelle vicinanze dello stazzo dove Cillocco era tenuto prigioniero. Poi aveva seguito discretamente il corteo che lo conduceva alla forca. Era entrato a Sassari senza che nessuno badasse a lui. Aveva visto tutto e ora sapeva che mai avrebbe dimenticato, mai, per quanti anni campasse. Il racconto terminò. Non era stata una cosa lunga.
Alla fine, l’Esule aveva le lacrime agli occhi. Erano seduti lui sul letto i due ospiti sulle due sedie impagliate. Allungò una mano e strinse il braccio di Antoni. – Grazie – disse in francese. – Ti ringrazio – aggiunse subito in sardo. – Ora, torna a casa, se puoi. Torna a casa.
Non c’era molto altro da dirsi. I due visitatori si congedarono di lì a poco. L’Esule pensò che non avrebbe avuto la forza di sopportare altre delusioni, altre sconfitte. Mundula morto, Sanna Corda morto, Cillocco morto. E con loro tanti, troppi altri. Capì di aver perso. Questa idea sorprendentemente lo rasserenò. Si augurò solo che le idee sopravvivessero agli uomini. Pensò che sarebbe stato disposto a subire l’oblio del proprio nome a patto che la sua terra conoscesse prima o poi la libertà e la prosperità che le spettavano di diritto. Pensò anche che lui, ormai, non poteva comunque più farci nulla. E fu tutto.
Sardegna, autunno 1823
Era ancora notte, fuori. Non c’era bisogno di guardare il cielo, bastava il silenzio. Allora cos’era questo improvviso bussare alla porta? Antoni si alzò su un gomito, nel suo letto rifatto di recente. Sua moglie si mosse, aprì gli occhi, si mise seduta.
– Cos’è! – chiese, spaventata.
Antoni non rispose. Scese dal letto, infilò le braghe di lino e andò scalzo fino alla porta d’ingresso. Aprì e gli comparirono davanti le facce di tre uomini. Uno era suo cugino Pedru, poco più che un ragazzo, servo pastore, gli altri erano tziu Berte Masala, e Pepinu, compare d’anello di Antoni medesimo.
– Cosa succede? – chiese lui. L’aria sapeva di notte, di umido e di foglie cadute.
– Lo stanno facendo – rispose tziu Berte. – È tutto vero. La notizia è arrivata ieri, nel pomeriggio, ma solo a qualcuno. E sono già tutti al lavoro. Hanno già chiuso la strada del Monte e ora stanno recintando tutto il piano verso la Fonte grande.
– Non possono fare una cosa così – disse Antoni.
– Vieni a vedere – gli rispose Pedru.
Antoni corse dentro. Mentre infilava camicia, soprascarpe, scarponi e giubbone, disse alla moglie di non preoccuparsi, che andava a vedere e basta. Raggiunse gli altri, che lo aspettavano già sulla strada.
– Non prendiamo i cavalli? – disse suo compare, Pepinu.
– No, non facciamoci vedere e nemmeno sentire – rispose lui.
Sapevano dove andare. A piedi ci avrebbero messo di più, ma tutti conoscevano sentieri e scorciatoie, anche di notte. Bastava una lanterna cieca, da spegnere al momento opportuno. Il villaggio era silente, ma Antoni sapeva che non lo sarebbe rimasto ancora per molto. Superato il rio, già gonfio delle piogge stagionali, trovarono sul viottolo altri cinque uomini ad aspettarli. E due donne. Uno di loro bofonchiava imprecazioni. Una delle donne, tzia Melledda, reggeva un forcone. Aveva perso il marito dieci anni prima, in uno scontro con i soldati, e portava ancora il lutto, ma non era mai stata abituata ad abbassare lo sguardo.
– Sono gli uomini di Don Sanna Lostia e quelli di Zanne Manca – disse uno degli altri uomini.
Zanne Manca, pensò Antoni, aveva partecipato alla presa di Sassari, da giovane, era stato un uomo di fiducia di suo padrino in quella zona, aveva persino guidato uno scontro con la milizia dei baroni, uscendone vincitore. E ora era in prima fila ad accaparrarsi ciò che era di tutti.
– Sono ore che lavorano – disse Pedru, il servo pastore. Era stato lui a dare l’allarme. Era in campagna, dormiva nella pinneta e si era svegliato per pisciare. Così si era accorto di quei rumori. Uomini con carri e attrezzi.
Antoni volle andare a vedere. Procedettero silenziosi, poi ad un certo punto lasciarono il sentiero, gettandosi tra le sughere. Dal colmo della bassa collina guardarono verso il piano sotto di loro. La zona dove da sempre si coltivava il grano. E più in là il dolce saliscendi dei pascoli, punteggiati di macchia e di rade querce. Molti uomini trafficavano tra mucchi di pietre, carri a buoi che andavano e venivano e una striscia scura che si riconosceva benissimo anche al flebile lucore della prima aurora. Un muro. Un muro a secco, tirato su alla buona, ma rapidamente.
Voci diverse mormorarono bestemmie e maledizioni. Antoni fece cenno di tacere, quindi indicò alle proprie spalle: segnale di ritirata. Aveva visto, aveva capito.
– Bisogna avvisare il parroco – disse tziu Berte.
– Il sindaco è d’accordo con quelli e anche il parroco – disse Pepinu. Sputò di lato e borbottò un improperio.
Si avviarono di nuovo verso il villaggio, in silenzio.
Arrivarono che molte porte erano aperte e diverse persone erano per strada. Nei vicinati la notizia si era già diffusa. Antoni non passò da casa sua, ma andò dritto verso la piazza della chiesa. Pensava ai suoi figli. Pensava a suo padrino, Francesco Sanna Corda, pensava al povero Cillocco. Pensava ai mesi passati in prigione, dopo il suo ritorno.
– Cosa facciamo? – gli chiese suo compare, Pepinu.
– E cosa facciamo… – rispose lui. – Lottiamo.