Sulla questione Zona Franca si gioca molta parte della credibilità della classe politica sarda. Fin qui, lo sappiamo, il nostro Consiglio regionale ha dato una pessima prova di sé, quasi sempre con PD, PDL e complici vari in combutta tra loro (basti pensare all’affossamento della doppia preferenza di genere, o al favore con cui si privilegiano i grandi speculatori energetici o immobiliari a discapito degli interessi dei sardi e del nostro territorio).
Sulla Zona Franca purtroppo assistiamo a uno spettacolo all’altezza dei precedenti. Da un lato Cappellacci che cavalca un’onda sollevata da altri per farsi propaganda a buon mercato. Dall’altra un centrosinistra inebetito e costretto a fare buon viso a cattivo gioco, nell’illusione di non perdere consensi.
Quel che emerge in entrambi gli schieramenti è la totale improvvisazione e un’inadeguatezza imbarazzante: tra lettere mandate all’indirizzo sbagliato, opinioni che cambiano al mutare degli umori dell’elettorato, notizie false e sparate propagandistiche c’è da chiedersi cosa diavolo ci stiano a fare questi qui nei posti dove si prendono decisioni tanto rilevanti.
Quel che è successo ieri in Consiglio regionale è che è stata licenziata da una commissione una proposta di legge di revisione dell’art. 12 dello statuto sardo in materia di zone franche, proposta che poi dovrà seguire un iter piuttosto lungo e complicato per poter arrivare a definitiva entrata in vigore. Per ottenere, alla fine, che la Sardegna in sostanza sia esclusa dalla linea doganale italiana.
Se il parlamento italiano approverà la misura e non ci saranno impugnazioni o contestazioni successive, la nuova norma statutaria farà sì che in Sardegna non si pagheranno più alcune imposte statali (dirette e indirette) e di conseguenza che il fabbisogno finanziario dell’isola dovrà essere compensato in qualche altro modo.
L’ipotesi più probabile (data la condizione deficitaria del nostro sistema economico e le nostre ben note carenze infrastrutturali e amministrative) è che sicuramente nel breve periodo (anni), ma molto probabilmente anche nel medio termine (decine di anni), la Sardegna diventerebbe una sorta di appendice parassitaria dello stato italiano. E sappiamo quanto navighi in buone acque lo stato italiano e quanta solerzia abbia sempre dimostrato verso la Sardegna.
Sarà dunque ben lieto di accollarsi tutte le nostre spese per sanità, scuola, strade, assistenza sociale, infrastrutture, trasporti, ecc. ecc. Si tratterebbe dunque di una forma di dipendenza ancora più forte e addirittura assoluta. Alla faccia di chi spaccia questa soluzione per una specie di succedaneo dell’indipendenza.
Oppure lo stato italiano ci dirà di arrangiarci, e allora saranno veramente guai grossi. E non perché non possiamo badare a noi stessi, ma perché noi stessi avremo eliminato l’unica fonte possibile di reale autodeterminazione: le entrate tributarie.
Basti pensare che il servizio sanitario pubblico è già totalmente a carico della Regione sarda, così come il finanziamento della continuità territoriale (chiamiamola così, per comodità) e gran parte dei finanziamenti per le infrastrutture stradali e ferroviarie. Solo per elencare alcune voci di spesa strategiche. I soldi necessari ci arrivano dalla compartecipazione al gettito tributario dello stato (IRPEF, IVA e accise, prima di tutto), proprio quelle che subirebbero un drastico ridimensionamento con una Zona Franca come quella che si pretende di ottenere.
In più, in tale situazione, avrebbero mano libera i grossi squali dell’economia speculativa. Quelli che oggi hanno consistenti capitali da investire non sono esattamente dei filantropi in cerca di occasioni per far rifulgere la propria generosità.
Per lo più si tratta di società multinazionali, di grossi centri finanziari o di stati dal portafoglio ricco (tipo il Qatar, per intenderci). Avranno il privilegio di potersi comprare la Sardegna a prezzo di saldo: dal turismo, alla produzione di energia, dal settore immobiliare al suolo fertile (uno dei business del prossimo futuro) e all’acqua (dice niente la prospettata privatizzazione di Abbanoa?).
E poi naturalmente inceneritori, discariche, magari nei pressi di qualche bella area militare (che nessuno – il governo italiano è stato chiaro – si sogna di chiudere e tanto meno di bonificare e riconvertire) e ancora casinò e intrattenimento per vip. La sorte dei sardi in tutto ciò è una variabile dipendente.
Nel frattempo ci stiamo giocando malissimo le uniche vere possibilità di istituire davvero delle zone defiscalizzate sul suolo sardo. La prima è quella relativa ai porti franchi, che però ha un bilancio costi/benefici tutto da calcolare. È comunque una possibilità concreta, già normata e prevista.
Fino ad oggi non se n’è fatto niente, a parte per il porto di Cagliari (ma le cose vanno molto a rilento, per diverse ragioni) e bisognerebbe indagare sul perché.
Poi c’è la possibilità di istituire aree a fiscalità di vantaggio. Anche questo è previsto e attuabile. Se ne parla per il Sulcis. Si tratta di una misura temporanea, di solito di estensione urbana, per sostenere il sistema economico di un territorio in condizioni di particolare crisi. Anche questa sarebbe approvata e garantita dallo stato centrale.
Insomma, pure qui nulla di anche solo vagamente associabile a prospettive di affrancamento ed emancipazione della Sardegna. Ma, in un momento di enorme difficoltà come questo, può essere la soluzione per riavviare un tessuto produttivo e sociale in fase comatosa. Naturalmente ci vorrebbe pianificazione politica e ci vorrebbero obiettivi chiari e trasparenti. Concetti questi che è difficile associare alla classe politica sarda attuale, anche a livello locale, spesso.
Come si vede, la questione, benché seria e bisognosa di ogni scrupolo e di ogni competenza necessaria, è stata ridotta a mera propaganda e a pericolosa demagogia.
Sappiamo che la maggioranza dei cittadini non ha gli strumenti per comprendere questioni così complesse dal punto di vista giuridico, politico ed economico. Su questo gioca la politica irresponsabile di chi oggi ci governa e decide per noi.
Invece il dovere di una politica seria sarebbe di spiegare per bene come stiano le cose, dire parole di verità, senza tentare di manipolare le coscienze e gli umori di un elettorato già abbastanza provato. E anche di progettare soluzioni praticabili e lungimiranti.
In realtà ci sarebbe una via ben diversa per ridare respiro alla nostra economia, senza tanti trucchi da illusionisti. Oltre alle misure tampone, pure praticabili entro certi limiti, occorrerebbe riprendere in mano con decisione la “vertenza entrate”.
Bisognerebbe istituire l’agenzia sarda di riscossione e un ente di accertamento e monitoraggio tributario, bisognerebbe far rispettare allo Stato italiano l’accordo Soru-Prodi (grandissimo errore strategico, di matrice chiaramente dipendentista, quest’ultimo, ma tant’è), in modo da ottenere la parte di tributi non riversati che ci spetterebbe e al contempo attivare tutte le maggiori entrate previste da nuovo articolo 8 dello statuto.
Inoltre andrebbe drasticamente ridisegnata la spesa pubblica della RAS e degli enti locali: da un lato tagliando sprechi e sacche di privilegio e di clientela, riducendo la spesa sanitaria entro limiti fisiologici, semplificando l’apparato burocratico e amministrativo; dall’altro rimettendo in discussione con la massima forza il famigerato Patto di stabilità (vero cappio al collo dei comuni, specie di quelli virtuosi).
Tutte cose fuori dalla portata di partiti e centri di potere per propria natura tributari verso referenti e padroni esterni, oltre che mediocri e eticamente deboli (lo scandalo dei fondi ai gruppi consiliari è un sintomo chiaro, al di là degli aspetti strettamente penali della vicenda).
In definitiva, non possiamo costruire un’idea di riscatto e emancipazione sulla base di una concessione dello stato italiano (quand’anche fosse giuridicamente e politicamente fattibile), né basare il nostro futuro su variabili del tutto indipendenti dalla nostra responsabilità collettiva e dalla nostra capacità politica.
Dobbiamo volere di più, dobbiamo volere tutto: una democrazia finalmente realizzata, la possibilità di scegliere soluzioni adatte alle nostre esigenze strutturali, le risorse per realizzarle, l’attivazione delle indispensabili relazioni internazionali. Dobbiamo volere e ottenere tutto questo, non concessioni caritatevoli da parte di padroni vecchi e nuovi. E dobbiamo volerlo e ottenerlo nel più breve tempo possibile.
Aggiornamento
Ho corretto il paragrafo in cui evocavo il doppio passaggio parlamentare di una eventuale modifica dell’art. 12 dello Statuto sardo. Esso, come tutto il Titolo III cui appartiene, in base all’art. 54 dello Statuto medesimo, non necessita di procedura di revisione costituzionale, per essere emendato o abrogato. Rimane tutto intero il nodo politico, nonché evidente la dipendenza dell’esito richiesto dalla volontà del governo e del parlamento italiano, e sempre fatte salve eventuali contestazioni e impugnazioni successive.