Il blocco sociale che domina la Sardegna (per lo più in conto terzi, ma non senza trarne cospicui vantaggi) ha militanti insospettabili a propria disposizione. Facile immaginare che i grumi di potere clientelare, gli snodi dove si connettono incarichi istituzionali, grossi interessi di parte e una sostanziale assenza di qualsiasi etica pubblica, siano anche i primi oppositori di qualsiasi forma di cambiamento, non solo politico, ma prima di tutto economico e culturale. Quel che è più pericoloso, tuttavia, è l’atteggiamento ostile a qualsiasi proposta di mutamento e persino di progresso da parte di soggetti, entità collettive, centri di interesse che dichiaratamente auspicano quello stesso cambiamento che nei fatti contrastano.
Intendiamoci, cambiare per cambiare non ha nessun significato. Non è che se dici “cambiamento” o “nuovo” allora passi direttamente dalla parte della ragione. Anche il fascismo era un cambiamento ed era il “nuovo”, almeno in termini narrativi e retorici. E però nella nostra situazione storica è evidente a tutti, proprio a tutti, che un rinnovamento di certe strutture produttive, sociali e politiche, nonché un ampio e profondo mutamento culturale, siano indispensabili. Per questo tutti gli attori sulla scena propugnano novità, evocano spirito di appartenenza alla nostra collettività storica (magari mimando posticce rivendicazioni identitarie o inventando neologismi di comodo, tipo “sovranismo”) e si dicono unici, sinceri difensori dei sardi contro i loro malvagi nemici esterni. Per lo più i veri nemici dei sardi si annidano tra le loro file, è doveroso ricordarlo. In ogni caso, che sia necessario offrire qualcosa di nuovo ai sardi, per lo meno in vista delle prossime elezioni, è dato per scontato.
Cos’è allora che non va? Intanto che non tutto quello che viene presentato come nuovo è anche altrettanto buono. Sotto la comoda etichetta del cambiamento si annidano troppo spesso inganni e tappole pericolose. Inoltre non tutto quello che viene presentato come nuovo lo è davvero. È facile giocare con le parole, per chi le sa maneggiare, e si sa che la politica è in larga misura comunicazione (che ci piaccia o no).
Il pericolo maggiore si annida comunque laddove ce lo aspettiamo di meno. In Sardegna una larga parte dello schieramento politico-sociale-culturale che si autodefinisce progressista o di sinistra è in reatà del tutto organico alle strutture di potere e di consenso che alimentano e perpetuano lo status quo. In Sardegna una vera sinistra, in termini teorici e politici, non esiste o è estremamente minoritaria. Se per sinistra intendiamo una sensibilità sociale rivolta agli interessi più generali, un riconoscimento della dialettica interna alla società stessa e una propensione a modificare la realtà storica in nome dell’eguaglianza e dell’emancipazione economica, sociale e culturale dei cittadini, be’ diventa estremamente difficile attribuire tale definizione alle forze politiche istituzionalizzate che pure vengono solitamente associate (da se stesse o dai mass media) a tale collocazione ideale.
In particolare i partiti italiani sedicenti di sinistra e il loro apparato di clientele e legami familistici (nelle amministrazioni pubbliche, nelle università, nelle redazioni, nell’ambito culturale in senso lato, ecc.) sono di fatto un fortissimo elemento di conservazione. Non meno dei partiti e delle forze sociali dichiaratamente “moderati” (ossia di “destra”) o evidentemente dediti all’affarismo da sottogoverno. L’equivoco però è fatale a molti elettori e persino a tanti militanti che ancora confondono l’etichetta con il contenuto. Molti di loro, per lenire il fastidio inconscio che pure avvertono, si autoconsolano con il senso di appartenenza a una storia politica significativa, senza rendersi conto che di quella storia politica non fanno affatto parte o che la storia politica che hanno in mente loro è solo finzione, pura rappresentazione.
Quel che è esistito in Sardegna, nello schieramento politico progressista, socialista e comunista, è stato un potente e pervasivo apparato di potere subalterno a decisioni e scelte strategiche aliene, non meno dannoso per l’isola delle forze politiche di stampo conservatore (come la DC e i suoi satelliti e fino alle forze che ne hanno preso il posto attualmente, e così come è stato quasi sempre il PSdAz). Se pensiamo a tutti i nodi economici, sociali e culturali degli ultimi cento anni e della stagione autonomista in particolare, dobbiamo prendere atto che in ogni momento decisivo il sistema di consenso e di selezione degli obiettivi nello schieramento di sinistra ha privilegiato interessi estranei alla Sardegna e ha contribuito a perpetuare la nostra subalternità e il nostro impoverimento materiale, culturale e morale. Pensiamo alla stessa scelta autonomista e a come è stata declinata storicamente, dunque ai rapporti con lo stato centrale. Pensiamo all’appoggio dissennato e autorazzista al Piano di Rinascita industrialista. Pensiamo all’ostilità verso qualsiasi pulsione emancipativa di tipo indipendentista. Pensiamo alla violenta opposizione verso il riconoscimento della dignità linguistica e storica della lingua sarda.
Ancora oggi tali posizioni lasciano uno strascico pesante dietro di sé e caratterizzano le scelte e le dichiarazioni di una larga parte non solo delle nomenklature dei partiti italiani o dei quadri dell’accademia e del mondo della cultura (che sono selezionati in base alla loro fedeltà ai capi e agli interessi specifici promossi dal partito padrone, o dalle istituzioni centrali da cui dipendono), ma anche di tanti iscritti, o simpatizanti, o commentatori, quella che si definisce la base insomma (che certo per lo più ha ben poco da lucrare da tanta ottusa fedeltà). Questo è un nodo difficile da sciogliere, perché attiene ai processi di identificazione individuale, alla costruzione di un armamentario mentale e di un immaginario diffuso che è penetrato in profondità nelle coscienze di tanti sardi, anche ben disposti e tendenzialmente onesti dal punto di vista intellettuale e politico.
Tuttavia, è un nodo che va sciolto. Oggi le giustificazioni e le attenuanti tendono a ridursi a zero, per chi vanti una intelligenza media e possa accedere senza troppa fatica a strumenti critici adeguati. Il discorso della nostra emancipazione storica deve essere affrontato senza sotterfugi e senza scappatoie, con la coscienza della delicatezza della fase che stiamo vivendo. Addurre sofismi o cavilli contro la necessità di una assunzione di responsabilità di tutti noi sul nostro destino collettivo non può più essere addebitato a disinformazione inconsapevole o a cattiva percezione delle dinamiche in corso. Per lo più, i fautori dei partiti italiani in Sardegna, soprattutto di quelli di sinistra o sedicenti tali, hanno poche scuse a propria disposizione. Si tratta dunque di mera volontà di conservazione e di debolezza etica e culturale, quando non sia puro e semplice calcolo interessato.
La stessa tiritera circa il pericolo rappresentato da proposte politiche diverse da quelle putrescenti del centrosinistra italiano, in quanto implicito lasciapassare per il centrodestra, sono valutazioni di tale scarsa portata politica, da far ribollire il sangue. Se questo è il livello della discussione pubblica in Sardegna, non c’è da meravigliarsi dello stato a cui ci siamo ridotti.
La questione è di tutt’altra portata. Chi è veramente animato dal senso di appartenenza alla nostra collettività storica e al nostro territorio, chi coltiva ideali di libertà ed eguaglianza, chi propende per un benessere materiale e morale non disgiunto dalla giustizia sociale e dalla salvaguardia degli equilibri ambientali, chi abbia della dialettica sociale un’idea non semplicistica e reazionaria, persino chi voglia poter esercitare l’impresa privata in termini creativi, produttivi, liberi da condizionamenti impropri, non può non vedere quale distanza corra tra l’apparato di potere che ha dominato fin qui la Sardegna (incarnato dagli schieramenti italiani e dai loro satelliti locali) e le reali necessità della nostra gente. Nessuno, in buona fede, può pensare che il meglio, anche a livello elettorale, sia affidarsi alla politica italiana e ai suoi schemi corrotti e oppressivi. Non può nemmeno esserci indulgenza per chi, ostentando velleità emancipative o addirittura dichiaratamente indipendentiste, si renda complice del sistema di potere vigente.
D’altra parte, non è nemmeno questione di aderire acriticamente a qualche schieramento elettorale, o affidarsi passivamente alla sorte. C’è invece da rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Mettersi in gioco direttamente, fare una scelta di campo chiara. O con la Sardegna e i sardi, o con le forze che la dominano e la soffocano. I distinguo capziosi, le antipatie di tipo personale, gli egoismi individuali o di categoria o di partito, sono una zavorra pericolosa che non possiamo permetterci, quando non siano solo forme interessate di inquinamento del discorso pubblico.
Gli schemi vanno rotti, va esercitato il pensiero laterale, va pensata e persino sognata una Sardegna diversa, va spostato l’orizzonte. Senza paura di essere inadeguati, senza cedere alla voglia di compromessi al ribasso. Il nostro futuro dipende da tanti fattori, anche imponderabili o non controllabili, ma una certa parte di esso lo stabiliremo noi, adesso. Sarà bene pensarci con molta attenzione e con molta generosità, a quel che faremo di qui ai prossimi mesi e anni, se non vogliamo essere ricordati come gli ennesimi Valore de Ligia o Girolamo Pitzolo della nostra storia, i nuovi meschini affossatori di una Sardegna potenzialmente più libera, più ricca e più bella.