Esiste un filone piuttosto consistente, nella letteratura e nella saggistica sarda, che si occupa del nostro mito identitario, dei nostri stereotipi e delle narrazioni che ne discendono. Apparentemente si tratta di opere sì eterogenee, ma tutte indirizzate a un medesimo obiettivo: decostruire l’immagine che i sardi e/o i non sardi hanno dei sardi stessi, di solito destituendo di fondamento ogni nostra pretesa di “specialità”. In realtà dentro questa categoria dai contorni piuttosto delineati, benché così diversificata al suo interno, esiste una distinzione ancor più fondamentale che è opportuno far emergere chiaramente.
E’ vero infatti che si tende comunemente a decostruire o almeno a discutere la tesi della nostra specialità, ma questo si può fare con spirito diametralmente opposto. C’è chi lo fa in termini conservativi e a volte reazionari (per lo più implicitamente o addirittura inconsciamente reazionari), c’è invece chi è animato da evidenti propensioni emancipative, volte a una forma di liberazione dei sardi dai propri cliché debilitanti. Il rifiuto della nostra specialità a molta parte dell’intellettualità sarda contemporanea è servito non a rifondare una narrazione collettiva che rispondesse, in termini chiarificatori e liberatori, alla diffusa aspirazione a una condizione storica meno deficitaria, bensì fondamentalmente a giustificare e canonizzare la propria posizione attendista e conformista verso il sistema di potere dominante. Una forma di autoassoluzione, per una classe sociale che negli ultimi duecento anni ha prosperato dentro i ruoli dell’accademia, del mondo culturale, dei mass media e dell’amministrazione pubblica e parapubblica italiani senza mai sollevare né ammettere alla discussione pubblica (se non obtorto collo, a mala gana diremmo noi) la questione della nostra dipendenza.
Altra cosa, rispetto a questa tendenza di molti nostri intellettuali, è la propensione verso una decostruzione del nostro mito identitario che sia volta a liberarci dalle pastoie deresponsabilizzanti dei nostri pretesi difetti congeniti, quella che cerca di riformulare una lettura di noi stessi nel tempo e nello spazio in termini non complessati e non tributari verso il sistema di dominio attuale. Il libro di Celestino Tabasso – critico letterario e osservatore culturale sulle pagine dell’Unione Sarda – è a mio avviso ascrivibile a questo secondo ambito. Nessuna pretesa politica, certamente, e nessun atteggiamento paternalista, bensì una disincatata disamina di vezzi, modi di fare e stereotipi narrativi troppo facilmente assimilati e reiterati da tanti sardi.
Il nucleo fondante del testo è la pretestuosa redazione di una guida di Cagliari per visitatori ignari. Un approccio di per sé promettente, dato che l’autore non è di Cagliari e, come se questo già non bastasse, è addirittura di Sassari. Il testo però ha il pregio di svicolare da una traccia segnata e di divagare a largo spettro non solo sui presunti “errori da evitare a Cagliari” ma anche su molti luoghi comuni pansardi. Il tutto con una scrittura agile e spigliata, e uno stile tributario non solo alla famigerata ironia sassarese ma forse di più allo humor anglosassone, magari filtrato in chiave luttazziana (Daniele Luttazzi, chi era costui?). Il frutto di questa operazione è un libro estremamente divertente, a tratti irresistibilmente esilarante, che un lettore sardo può gustare fin nelle più intime allusioni e che può comunque riuscire gradito anche a un lettore italiano, meglio se frequentatore dell’isola.
Con tanti pregi, risulta dunque del tutto perdonabile l’attribuzione a Cagliari di una appartenenza al novero delle città italiane, tipicamente italiane, come ad un certo punto scappa di scrivere a Tabasso. Se ne potrebbe discutere a lungo, ma si tratterebbe di ingigantire un aspetto che nel libro è del tutto marginale e chiaramente più frutto di una abitudine mentale che di una riflessione specifica.
Un libro da leggere e da far leggere, insomma, anche ad alta voce e in compagnia. Il divertimento è assicurato e magari dal divertimento nascerà anche un ragionamento e dal ragionamento uno sguardo meno provinciale, più libero e quindi liberatorio, su noi stessi e su noi stessi nel mondo.