Nella questione linguistica sarda si sommano diversi piani del discorso, che tendono a intersecarsi senza coincidere, rendendo così ancora più ingarbugliato il problema. Condizione ideale per chi desidera che non si risolva mai.
La prima cosa da mettere in chiaro è che si tratta di una questione esclusivamente politica. I maldestri tentativi di riaprire in continuazione la discussione sugli aspetti scientifici e linguistici sono chiaramente strumentali al mantenimento dello status quo. Le basi teoriche e sperimentali in questo campo sono assolutamente solide e ormai indubitabili (ad esempio, l’indagine socio-linguistica del 2006). In Sardegna esiste un sistema linguistico storicamente autoctono (nella misura in cui lo sono tutti i sistemi linguistici) ed è quello della lingua sarda comunemente detta. Questo sistema linguistico (di origine stratificata e a sua volta complessa, com’è inevitabile) ha un suo grado accertato di omogeneità, salvo essere ancora suddiviso in varianti, ossia dialetti. Divisione in dialetti che ha storicamente prevalso sulla sua standardizzazione.
La mancata standardizzazione del sardo non è frutto di qualche sua caratteristica intrinseca, che lo renderebbe inadatto a diventare una vera lingua (in senso storico e politico), ma solo di circostanze e di scelte appunto storiche e politiche. Escludere dall’orizzonte della lingua sarda una forma di standardizzazione almeno grafica significa da un lato non sapere come vadano le cose in questo ambito presso tutte le comunità umane del globo, da un altro non concepire il sardo come una lingua e i sardi come una collettività storica dotata di soggettività propria (reale o potenziale). Con buona pace degli adepti del “divide et impera” e anche di certe ignorantissime intelligenze fanaticamente italocentriche (presenti anche tra i sardi, per altro).
A questo discorso è legata la normazione e la normalizzazione del sardo. Il che implica anche il suo utilizzo in tutte le forme e in tutti i registri possibili, dall’uso veicolare nelle scuole, a quello nei mass media, nelle pubblicazioni non solo letterarie ma anche tecniche e scientifiche, ecc. Non esiste alcun possibile problema di natura linguistica, in questo senso. Le obiezioni in proposito, buttate nel dibattito di tanto in tanto, sono solo pretestuosi tentativi di sabotaggio.
Naturalmente, standardizzare il sardo non comporta affatto la soppressione o la marginalizzazione violenta dei suoi dialetti. Storicamente in Europa le parlate locali sono sopravvissute anche in presenza di forme di acculturazione forzata, di centralizzazioni linguistiche rigorosamente applicate alle popolazioni. Non si vede perché dovrebbero scomparire le parlate locali sarde in una condizione di riconoscimento, rispetto e tutela quale dovrebbe essere quella ad esse garantita in Sardegna dai sardi stessi.
Altra faccenda è quella relativa al plurilinguismo della Sardegna. Non si parla qui di dialetti del sardo, ma di altri sistemi linguistici presenti sull’Isola, a volte da secoli, e ormai storicizzatisi come ulteriori lingue sarde. Escludere dall’ambito della “sardità” il sistema sardo-corso (sassarese-gallurese) è un’operazione che solo in un’ottica di forzosa appartenenza all’Italia si può giustificare, perché serve a rafforzare la “specialità” del sardo comunemente detto, dunque a corroborare la richiesta di tutela e sostegno a favore di quest’ultimo rivolta allo stato centrale. La presenza di questo sistema linguistico meticcio è stata usata per creare un ponte culturale (del tutto artificioso) tra Sardegna e Italia, in funzione prettamente egemonica, dunque politica. Il sistema sardo-corso, in realtà, con l’Italia ha ben poco a che fare. Ha a che fare caso mai con la Corsica, appunto. L’isola gemella è sempre stata punto d’arrivo e di partenza di un duraturo traffico umano e culturale, e non certo solo dal XVII secolo. Che in questo rapporto millenario di vicinanza ci siano stati anche scambi linguistici è il fenomeno meno misterioso che si possa immaginare.
Allo stesso modo non si può negare la patente di sardità al catalano antico parlato ad Alghero (fin dal 1355, quando venne istituita la colonia catalana nella città del corallo, dal re d’Aragona e conte di Barcellona Pietro il Cermonioso). Né si può sostenere che i discendenti dei liguri dell’isola di Tabarca (Tunisia) che colonizzarono Carloforte e Calasetta nel Settecento non siano sardi a tutti gli effetti.
In più, da due secoli e mezzo, ma sistematicamente e pervasivamente da cinquant’anni in qua, anche l’italiano si aggiunge alle lingue dei sardi. Certo, l’italianizzazione linguistica dei sardi non è stato affatto un processo pacifico e ne sapranno qualcosa anche molti di quelli che leggono queste righe. Non bisogna tornare troppo indietro con la memoria per sapere come sia stata trattata dalla scuola italiana la nostra alloglossia. Nondimeno, oggi come oggi, molti sardi sono nativi dell’italiano, benché spesso non abbiano reciso il legame con la propria lingua ancestrale, quella dei loro genitori, o nonni. L’italiano non va combattuto (in una guerra di retroguardia che assumerebbe uno sgradevole sapore nazionalista) ma semplicemente privato della sua posizione monopolistica e del suo status privilegiato. Il problema, caso mai, è pretendere di farlo senza affrontare il nodo della nostra condizione di “regione italiana”. Separare il problema linguistico dal problema politico complessivo della Sardegna è del tutto fuorviante, se non proprio assurdo.
In questa situazione, complessa ma non ingestibile, l’unica cosa che manca è dunque la politica. E non certo la politica italiana, a cui non si può demandare la cura di questioni e risorse non strategiche per l’Italia medesima. Quella che manca è la politica sarda. Una politica culturale che si faccia carico di tradurre nel presente e nel futuro l’immenso patrimonio ereditato dal nostro passato. Le possibilità di intervenire proficuamente in questo ambito esistono. Basterebbe anche solo guardarsi intorno, in giro per il mondo. Spesso credersi speciali comporta una forma di autoreferenzialità che sconfina nella patologia. Togliamoci dalla testa di essere speciali per qualcun altro. Gli unici per cui dovremmo esserlo siamo noi stessi. A ben poco valgono le richieste di tutela rivolte a chicchessia, se non forse a rafforzare nell’interlcutore la convinzione della nostra debolezza e della nostra ricattabilità.
Non c’è alcuna ragione al mondo per cui non sia possibile mettere mano compiutamente alla questione linguistica sarda, in modo sereno e rispettoso, democratico e condiviso. Forse mancano la percezione di noi stessi come collettività storica, una memoria comune diffusa, la coscienza della nostra appartenenza storica. In questo la riappropriazione delle nostre lingue storiche può essere sia un mezzo di emancipazione sia un effetto della medesima. Un circolo virtuoso ancora da innescare, con ricadute molto pratiche anche in termini economici, che non può però prescindere da una prospettiva di liberazione e responsabilizzazione collettiva anche in senso politico. Prospettiva dalla quale purtroppo ancora oggi la politica sarda, pur ammantandosi di retorica sovranista, tenta di tenersi alla larga. La soluzione non è sperare nella salvezza che arriva da fuori, né attendere chissà quali occasioni migliori, bensì prendersi direttamente e responsabilmente lo scenario culturale e politico sardo, senza paura, senza fanatismi, da spiriti liberi.