Una delle narrazioni egemoniche di questi tempi dipinge la politica come sostanzialmente inutile o addirittura dannosa, condanna in massa i partiti politici e tende a ridimensionare le istituzioni rappresentative, tanto a livello globale, quanto a livello locale. Un esempio chiaro è stata la campagna contro le province, messa in atto nell’ambito italiano lo scorso anno e sfociata anche in Sardegna in esiti paradossali (ricordiamo tutti il referendum “anti-casta” voluto dalla “casta”, poi dalla stessa “casta” subito rimangiato). Oggi è il turno delle regioni. Detto per inciso, sarà divertente vedere come faranno ad abolire la Sardegna, dato che non si tratta di una regione geografica italiana, ma di un’isola circondata dalle acque internazionali. Magari si limiteranno a cancellarla dalla cartina. Chiusa parentesi. In ogni caso, è evidente come tali narrazioni servano fondamentalmente a precostituire delle ragioni apparentemente solide per scelte politiche antidemocratiche e accentratrici, per di più dal prevalente contenuto reazionario.
Il problema specifico del contesto politico italiano è che, a differenza di altre aree europee, a tale narrazione non si contrappone una reazione popolare generalizzata. Il disagio crescente si manifesta solo attraverso lotte corporative e settoriali. In Sardegna il fenomeno è del tutto evidente: tante categorie produttive e sociali in lotta, magari alle prese con durissime vertenze, che non riescono a connettersi tra loro ed alla prima concessione (per lo più illusoria, come sappiamo) abbandonano il campo, fino alla seguente delusione.
La mancanza di una coscienza collettiva diffusa e la scarsa percezione di sé stessi come entità storica a sé stante portano i sardi a disconoscere una verità altrimenti lampante. La Sardegna deve salvarsi da sola, con le proprie forze, e le proprie forze sono la risultante delle forze di tutti messe insieme. Le “lotte tra poveri” servono solo a mantenere lo status quo o a produrre una transizione verso cambiamenti solo superficiali, che non toccano i veri rapporti di forza e i nodi strutturali della presente fase storica.
Ma al di là di queste considerazioni, quel che mi preme sottolineare è la pericolosità della deriva antipolitica e antidemocratica in atto. Se è vero che le forze politiche che attualmente occupano la scena sono ormai per lo più impresentabili, per mancanze attribuibili alle proprie dirigenze e ai propri esponenti, è anche vero che dedurre da questo l’inutilità tanto dei partiti politici quanto delle istituzioni rappresentative è un pericoloso salto nel buio. E per buio intendo una caduta dell’intero sistema politico ad un livello autoritario e oscurantista (la storia ci offre molti esempi di questa dinamica abbastanza tipica).
Non sono un entusiasta della democrazia rappresentativa, né mi convince la retorica autoreferenziale secondo cui tale modello politico, tutto interno alla storia e alla cultura europea, sia una ricetta universale, a-temporale, assoluta, degna di essere imposta ovunque, specie a chi non la vuole. Così come non mi sfuggono i limiti di un sistema in cui prevalgono la delega, la deresponsabilizzazione, la corruzione endemica e gli interessi dei grandi centri di potere economico. Nondimeno, screditare del tutto il sistema democratico così come storicamente si è realizzato non sembra una buona soluzione, se si hanno a cuore le sorti della maggior parte delle popolazioni coinvolte.
Sostenere che il voto sia inutile, per esempio, non solo espone la massa dei cittadini a derive oligarchiche, a forme di dominio autoritario rivestito di legittimazione politica e giuridica solo apparente, ma ha anche delle conseguenze molto pratiche sulla vita di tante persone. Uno studio di economia sperimentale, condotto dallo staff di Esther Duflo (una dei maggiori esperti mondiali sul tema della povertà), ha dimostrato che anche solo andando a votare si possono determinare mutamenti politici che hanno ricadute immediate sulle condizioni di vita delle comunità. Per il semplice fatto che, se accede al voto chi prima ne era escluso, tenderà a votare chi sembra poter assicurare soluzioni favorevoli al proprio gruppo sociale. E se gli esclusi sono poveri, precari, disoccupati, genitori in difficoltà, ecc., tutti costoro tenderanno a eleggere rappresentanti che si occupino dei loro problemi, magari tratti proprio dalle loro file, e non altri.
Tale esito scientifico non è così scontato e non è nemmeno così elementare. Per esercitare compiutamente e in modo intelligente (ossia, vantaggioso per la collettività) il proprio diritto di voto, è necessaria la sussistenza di alcune condizioni materiali e giuridiche, che non possono essere date per scontate ma che invece bisogna mantenere o eventualmente pretendere. Per esempio l’alfabetizzazione generalizzata, il possesso di mezzi ciritici adeguati, dunque l’accesso all’istruzione e a mezzi di comunicazione liberi, un sistema elettorale comprensibile e trasparente, la reale possibilità che qualsiasi cittadino/a possa partecipare alla competizione elettorale non solo come votante ma anche come candidato/a, ecc. Queste sono conquiste concrete, probabilmente poco romantiche, ma sono le condizioni di base per realizzare storicamente i grandi principi moderni della libertà e dell’eguaglianza.
Per questo è necessario smontare la narrazione egemonica che sta erodendo le forme dello stato di diritto, la partecipazione responsabile dei cittadini alla sfera politica e le istituzioni rappresentative (specie quelle più vicine ai cittadini). E non è affatto vero che, esercitando anche solo il diritto al voto (per la cui conquista molti/e in passato hanno sacrificato la propria esistenza), non si possa contribuire a migliorare le cose.
Caso mai dovremmo domandarci – specialmente noi sardi – come lo abbiamo esercitato fin’ora, da quando ne disponiamo, e in che misura e in che forma abbiamo chiesto conto ai nostri rappresentanti delle loro scelte. Ed anche in che prospettiva siamo stati soliti esercitare il nostro voto democratico, e se per caso l’attuale decadenza non sia anche il frutto di nostre scelte sbagliate, volte a privilegiare il tornaconto individuale o familiare immediato a discapito di un vantaggio più diffuso e duraturo.
Inoltre, nel nostro caso specifico, è urgente riflettere su quanto sia realmente democratico un voto che comunque non arriva a dotare i sardi della capacità di decidere per sé. La nostra condizione storica e politica, anche dentro le forme della democrazia occidentale, non ci ha consentito fino ad oggi di avere voce in capitolo né sul livello politico interno (piegato a interessi particolari e allo stesso tempo dominato da scelte esterne) né su quello esterno (a causa della nostra distanza geografica dal centro del potere sovrano e della nostra dimensione insignificante, in un contesto altro, più ampio e portatore di interessi diversi). Basti solo pensare a quali perdite enormi abbia comportato negli anni il non avere accesso alla rappresentanza europea, il non poter incidere su alcun livello decisionale macroscopico riguardo alle nostre risorse e ai nostri interessi strategici, in qualità di soggetto politico internazionalmente riconosciuto.
A poco vale, in questo discorso, la solita obiezione relativa ai tanti politici sardi che hanno fatto carriera in Italia. Fare carriera in Italia di per sé esclude il fare gli interessi della Sardegna, non tanto (o non solo) per colpa o dolo degli eletti in Sardegna nelle istituzioni italiane, quanto per ragioni strutturali insopprimibili: se fai politica in Italia, fai politica dentro e per il contesto italiano (ossia spesso per la classe egemone italiana), non c’è molta scelta.
La soluzione dunque non sembra l’abbandono delle forme democratiche, la rinuncia al voto, la rassegnazione al peggio. In realtà c’è sempre la possibilità di scegliere se non altro il meno peggio o, ancora meglio, di dedicarsi in prima persona alla politica, anche solo in forme associative primarie (comitati di quartiere, associazionismo, volontariato) e senza aver timore di entrare nei partiti politici, contribuendo a cambiarli se necessario.
Non ci sono molte alternative, a meno che non si preferisca la dittatura. Di sicuro i sardi non si possono permettere di abbandonare la partecipazione alla sfera politica. La debolezza del nostro sistema di rappresentanza deve essere sanata, ma non lo si può fare attraverso operazioni elitarie o avanguardistiche, senza una vasta e consapevole partecipazione popolare. È difficile, è snervante, ci si deve scontrare con divisioni, interessi particolari molto forti, pressioni esterne… Ma cos’altro dovremmo fare? Attendere che ci salvi qualcun altro? Rassegnarci alla fine ingloriosa della nostra esistenza come collettività storica? Io direi di no. Direi invece che in ogni caso vale la pena vendere cara la pelle, darsi da fare, contribuire al cambiamento che vogliamo anche solo con un passo, con un mattone, con una stretta di mano in più.
Se mai c’è stato un tempo buono per gli egoismi e la miopia politica, be’ quel tempo è finito. La libertà, l’eguaglianza e la fratellanza non sono doni del destino ma sono conquiste storiche che vanno ottenute concretamente dalle persone vere, reali, da noi, e che una volta ottenute vanno conservate e continuamente alimentate. La lamentela impotente e la ricerca di pretesti per l’inazione lasciano il tempo che trovano. Siamo tutti chiamati ad esercitare, fin dalle forme più pratiche ed immediate che le condizioni giuridiche e politiche ci consentono, la nostra responsabilità.