Sovranità, indipendenza, interdipendenze

Il fallimento di fatto di uno stato europeo come la Grecia, quasi che fosse una azienda qualsiasi, per di più di modeste dimensioni, non è rilevante per le conseguenze sull’euro o sui crediti vantati verso lo stato ellenico da altri stati (Germania, ad es. ) o porzioni di altri stati (in Italia, la Lombardia). Benché sia quello il tema principale affrontato dai mass media e l’oggetto delle preoccupazioni dei grandi operatori economici internazionali, in realtà, sul piano storico e su quello delle ricadute concrete il tema principale dovrebbe essere quello della sovranità e delle interdipendenze tra stati e tra popoli.

Da questo punto di vista assistiamo al caso di un ordinamento giuridico sovrano che di fatto è ostaggio di entità esterne, tanto da dover operare a detrimento dei propri stessi cittadini pur di soddisfare gli interessi di tali entità. Dico entità, perché alla fine ci sono dentro banche, istituzioni internazionali, investitori privati, investitori pubblici: un coacervo di interessi e poteri che comunque esulano dalla sfera di sovranità della Grecia e del suo popolo. Sovranità che pure nessuno formalmente si sogna di contestare o destituire di fondamento.

Possiamo anche concedere che in questa situazione penosa non ci siano responsabilità di speculatori internazionali e che non dipenda dal funzionamento intrinseco del meccanismo che regola tali vicende finanziarie. Diciamo dunque che la responsabilità sia totalmente attribuibile ai governanti della Grecia stessa, quindi in ultima analisi ai suoi cittadini. In ogni caso, siamo in presenza di una situazione che i padri della modernità politica (i vari Machiavelli, Hobbes, Bodin, e via a risalire il tempo fino ai vari studiosi contemporanei) avrebbero difficoltà a giustificare teoricamente, nel quadro di significati e di relazioni da loro costruito. Il che equivale a dire che tale quadro teorico è in forte crisi.

L’idea di stato sovrano nata ed evolutasi nel corso della modernità sembra sempre meno incarnata dalla realtà. Non tanto, quindi, un ulteriore sviluppo dello stesso processo storico, quanto piuttosto una rottura del medesimo. Se così fosse, bisognerebbe chiedersi come possano in questa nuova fase  trovare riconoscimento e soddisfazione quelli che tutti noi consideriamo diritti basilari dei cittadini, interessi e bisogni, sia collettivi sia individuali, in teoria ancora totalmente legittimi. A che livello e entro quali limiti si da ancora sovranità statale e come questa si collega con la vita pratica delle popolazioni? È accettabile che in base a regole finanziarie, prescrizioni ragionieristiche, teorie economiche, la vita di interi popoli venga sconvolta, deprivata di beni materiali e immateriali fondamentali, trasformata in un tragico conflitto per la sopravvivenza?

Beninteso, che esistano periodi di crisi in cui le aspettative per le nuove generazioni siano decrescenti rispetto a quelle precedenti è del tutto fisiologico, dal punto di vista storico. Niente di cui meravigliarsi. Tuttavia rimane la sensazione di una forma di ingiustizia e di inganno perpetrati ai danni di chi ancora è formalmente portatore di diritti e poteri e invece di fatto non lo è più. Il tutto alla fin fine a vantaggio di pochi.

Sono gli stessi meccanismi secondo cui sono inevitabili e alla fin fine accettabili la precarietà, lo sfruttamento, un tasso minimo di incidenti sul lavoro, l’inquinamento a livello sia locale sia globale, le devastazioni ambientali e culturali di larghe aree del pianeta, i compromessi con la grande criminalità organizzata. Il tutto spesso condito da una retorica ottimistica a sostegno della proiezione verso le magnifiche sorti e progressive che ci sbarazzeranno quasi automaticamente di orpelli costosi e inutili come gli stati, le istituzioni pubbliche, i servizi garantiti, i diritti di cittadinanza. Tutte cose di cui si può fare a meno a patto di poter consumare, e per poter consumare di poter avere un lavoro retribuito (poco, non sempre e a condizioni sempre più inumane). Ma è il migliore dei mondi possibili, in fondo.

Insomma, la modernità sembra morta e sepolta, a giudicare da tali costrutti propalati come leggi di natura dal mainstream economico, finanziario e mediatico. È morta e ci dicono che dovremmo ballare sul suo cadavere.

Invece ho il sospetto che una parte consistente della possibile risposta a tutto ciò stia ancora, e ancora per un pezzo, nella cara vecchia sovranità statale. Checché ne dicano i guru politici ed economici, gli stati sono ancora l’unico soggetto politico capace di avere voce in capitolo nel consesso internazionale, gli unici capaci di produrre le dinamiche economiche, giuridiche, culturali entro cui inserire prospettive di benessere, di miglioramento delle condizioni di vita delle persone reali, non delle società per azioni. Solo tali costruzioni della modernità, nelle condizioni storiche date, hanno ancora le facoltà e la forza di condensare a un livello sovralocale e sovrapersonale gli interessi e i bisogni delle porzioni di umanità che essi rappresentano, nonché di intessere quei rapporti di interdipendenza che possono bilanciare e contemperare differenze geografiche, diversità culturali, dotazioni di risorse diseguali e farne una fonte di dinamicità e di maggior benessere per la maggior parte possibile di esseri umani. Contemporaneamente sono anche gli unici agenti politici dotati della forza e della rappresentatività anche simbolica necessarie a contrastare gli interessi privati sovranazionali.

All’infuori di questo, per ora, non si intravvedono altri mezzi utilizzabili. A meno di non volersi affidare alle avventuristiche intenzioni dell’esigua minoranza del genere umano che trae crescenti vantaggi dalla situazione attuale e che conta di trarne altrettanti, se non di più, nel futuro, fosse anche a discapito di tutti gli altri e del pianeta stesso.

Sarebbe auspicabile che se ne prendesse coscienza anche dalle nostre parti, anziché stare a frignare per la crisi, per le carenze infrastrutturali, per il disinteresse del governo. Quale governo? O il governo è il nostro governo e incarna una sovranità che ci rappresenta e che sintetizza i nostri interessi collettivi, oppure, evidentemente, i nostri interessi non hanno peso né possibilità di essere difesi e soddisfatti. Se appare in crisi l’idea stessa di sovranità statale così come emersa dagli ultimi quattrocento anni di storia, figuriamoci cosa significa, per una terra e una popolazione come le nostre, non avere nemmeno quella! Eppure è esattamente questo uno degli argomenti principali contro le prospettive di indipendenza della Sardegna: uno stato nostro non ci servirebbe. Cioè, piuttosto che essere zoppo a una gamba, meglio essere tetraplegico. Un ottimo ragionamento non c’è che dire.

Solidarietà al popolo greco.