Interesse strategico

Capita spesso di chiedersi come mai la Sardegna, anche nel secondo dopoguerra, nonostante le premesse di un risveglio, si sia invece ritrovata ancora una volta ultima ruota del carro, subalterna e dominata quanto lo era stata prima, in epoca piemontese e italiana, senza apparenti progressi.

Le prospettive annunciate erano ben altre, specie se si considera l’uscita prematura dal secondo conflitto mondiale, che aveva dato modo di cominciare a ricostruire e progettare con un certo anticipo, rispetto ad altre aree europee. Invece niente. La montagna delle rivendicazioni di stampo sardista e indipendentista, riemerse prepotentemente sin dal declinare del 1943, aveva partorito un topolino così rachitico  (lo statuto  “speciale”) che persino Lussu, padre putativo di tutto il movimento nazionale sardo, lo aveva rinnegato nella culla. Non senza aver prima deluso e abbandonato la massa di seguaci che lo attendevano come un liberatore della patria. Nessuna liberazione, per la nazione fallita.

Poi, negli anni immediatamente seguenti, succedono un po’ di cose: disinfestazione a base di DDT, finanziata dalla fondazione Rockefeller; dissoluzione della rete di credito cooperativo a favore della concentrazione in un sistema “statale” quasi monopolistico; installazione e imposizione di poligoni e servitù militari; Piano di Rinascita fondato sull’industria pesante, petrolifera e chimica; avvio del turismo d’elite, non collegato col tessuto produttivo e culturale locale.

A questo si affiancava, sul fronte interno,  l’evidente conformismo della classe politica isolana, che era riuscita a neutralizzare o ad espellere come un corpo estraneo la componente nazionale e tendente all’autodeterminazione; la passività verso le scelte calate dall’alto e l’omertà verso quelle più problematiche e difficilmente accettabili dall’opinione pubblica (servitù militari in primis); l’uso della Sardegna come bacino elettorale per garantirsi una carriera politica in Italia; la sistematica complicità con i tentativi di disarticolazione produttiva e culturale locale, dal consenso alla relazione della commissione parlamentare Medici (sulla criminalità, 1972, lo stesso anno dei sommergibili americani alla Maddalena), alla richiesta di tutela e interventi straordinari, anche militari (contro il banditismo, ovviamente), all’accettazione dell’esclusione della lingua, della storia e della cultura sarde dalle scuole e dalle università.

A parte ragioni di tornaconto di classe, di pochezza politica, di mediocrità etica, bisogna considerare anche lo scenario internazionale in cui tutto ciò va inserito. Per quanto piccola, la Sardegna occupa una posizione geografica che solo lo sguardo miope e strabico, oltre che interessato, della pretesa classe dirigente sarda può considerare “periferica”. La Sardegna non è mai stata periferica in nessuna epoca storica e nemmeno preistorica. Questa è una tipica manifestazione di egemonia culturale: farci credere qualcosa che non è né è mai stato vero e farcelo metabolizzare fino a farcelo sentire nostro, a farcelo esprimere “spontaneamente”. Perché noi siamo bassi, siamo incapaci di lavorare, siamo testardi e orgogliosi, siamo di poche parole, ma per fortuna siamo ospitali. E via enumerando cliché.

Se poi ti capita di leggere qualcosa come questo pezzo di Piero Mannironi, il quadro si arricchisce di particolari che lo rendono decisamente più intellegibile. Ne riporto solo un estratto:

Per arrivare a capire il perché la Sardegna abbia avuto un’importanza strategica di primo piano dopo la Seconda guerra mondiale, è importante andare a rileggere alcuni documenti del Pentagono, desecretati negli ultimi anni. Si ha la prova così che, per quasi mezzo secolo, l’isola è stata un perno strategico nel fronte virtuale di una guerra mai dichiarata. Senza saperlo, infatti, la Sardegna era considerata dal Pentagono, fin dal lontano aprile del 1954, «a pivotal geographic location».

Ovvero il cuore, il punto critico, del sistema politico-militare, creato dall’alleanza atlantica nello scenario europeo. Di più: l’accordo di reciproco impegno, firmato il 26 novembre del 1956, tra il Sifar (l’allora servizio segreto militare italiano) e la Cia era basato «da parte statunitense, sul presupposto che i piani dello Stato maggiore della Difesa italiano prevedessero «l’attuazione di tutti gli sforzi per mantenere l’isola di Sardegna». Il grande interesse di Washington è poi confermato anche da una nota della Cia del 7 ottobre del 1957, nella quale si legge: «La Sardegna è considerata nei piani di guerra degli Usa».

Insomma, ci sarà da fare i conti anche con questi elementi, nel nostro processo di emancipazione storica e politica. Inutile sperare di no. Niente di sorprendente, intendiamoci, almeno per chi si occupi di storia. I rapporti di forza, i grandi interessi delle classi dirigenti o dominanti delle porzioni più avvantaggiate del pianeta, hanno sempre giocato un ruolo decisivo nella storia umana. Ma renderlo esplicito a un pubblico più vasto può contribuire ad accrescere il senso critico e la consapevolezza diffusa sulle questioni in campo.

La stessa declinazione populista, folcloristica, movimentista di certo indipendentismo sardo, sia del passato sia di questi giorni, è del tutto funzionale a un disegno di normalizzazione e dominio che non ha mai smesso di essere attuale. Una terra di suo non abbastanza piccola né abbastanza spopolata per poter essere controllata attraverso semplici strumenti politici e/o di polizia deve essere anche depotenziata nelle sue possibilità economiche, politiche e culturali. Lasciare libero sfogo a testimonianze ideali fini a se stesse, magari alla fin fine dannose per la credibilità dei propri stessi argomenti, fa parte del gioco. Così come ne fa parte a maggior ragione la depressione economica indotta (vertenze aperte in tutti i settori), l’isolamento fisico (questione trasporti), la deprivazione storica (festeggiamenti compulsivi del 17 marzo).

Senza indulgere in complottismi sciocchi e improduttivi, semplicemente meditiamoci su.