Il passo avanti sull’orlo del baratro

Come volevasi dimostrare, la giunta regionale sarda rinuncia a trascinare lo stato italiano davanti al suo giudice naturale (la Corte Costituzionale) per farsi restituire il maltolto (le mancate entrate tributarie degli ultimi vent’anni). Con una serie di ragioni tra l’azzeccagarbugli e il ridicolo puro e semplice, Cappellacci e i suoi sodali si sono semplicemente riservati di chiedere lumi alla Consulta a proposito della sussistenza medesima della famigerata “vertenza entrate”. Ossia, si limiteranno a chiedere conferma di quanto sappiamo già da un pezzo, senza grandi conseguenze pratiche.

Uno spettacolo miserevole e mortificante che  ci da la dimensione del problema: la totale assenza di una classe politica degna di questo nome, l’inesistente senso di appartenenza e di responsabilità verso un territorio e una popolazione che, con la complicità dei mass media, si continua a egemonizzare in un sistema di deprivazione materiale e culturale.

A fronte di questo esito patetico, la cruda realtà. Prendo spunto da una nota riassuntiva di Lilli Pruna, in cui si traccia il quadro delle prospettive demografiche e sociali della Sardegna nei prossimi quarant’anni, per fare qualche considerazione. In quella sintesi si evince come l’impatto sula materialità della nostra esistenza delle politiche perseguite dai governi italiani e sardi degli ultimi decenni sia pesante e totalmente negativo. Questo è bene che lo riconosciamo. È necessario uno sguardo prospettico, storico, per comprendere la portata di queste dinamiche di fondo. Non è questione di schieramenti partitici. Sappiamo quanto in Sardegna la finta dialettica elettorale nasconda un sistema di interessi, collegamenti, clientele che prescindono totalmente da qualsiasi intendimento ideale, da qualsiasi visione generale della realtà.

La Sardegna ne emerge come una terra in via di progressivo impoverimento e di progressivo spopolamento. Qualcosa su queste due questioni l’avevo già detta, mettendole appunto in una prospettiva storica. A quanto pare nel frattempo non c’è stato alcun cambiamento di rotta. Tutt’altro, direi.

Perché sono da mettere in connessione la vertenza entrate e gli esiti dello studio riepilogato da Lilli Pruna? Be’, mi pare facile intuirlo. La Sardegna non è una terra povera di per sé. Già solo con le risorse finanziarie che le sarebbero spettate di diritto all’interno dell’ordinamento giuridico italiano (di suo non particolarmente favorevole agli interessi dell’Isola) molti problemi strutturali avrebbero potuto trovare una prima soluzione: dalle infrastrutture di base, agli investimenti nei settori produttivi locali, alla cura dei beni collettivi, ecc.

Perché, ad esempio, lamentare lo scippo dei mitici fondi FAS per la Sassari-Olbia (che intanto continua a aumentare il suo punteggio, nella classifica delle strade più mortali) quando quella maledetta strada si sarebbe potuta mettere a posto con una frazione minima della cifra che ci deve lo stato? Che senso ha lamentare la dissoluzione del sistema scolastico, nelle sue struttura fisiche, prima ancora che organizzative e didattiche, se poi non si fa nulla per avere le risorse necessarie a salvarlo? E vogliamo parlare della sanità? Dei servizi alla persona? Del patrimonio storico e ambientale?

La mancanza di cura si palesa in tutta la sua crudezza e insopportabile inerzia proprio nel confronto drammatico tra i dati a disposizione (opportunamente taciuti dal mainstream mediatico) e le scelte della politica. Mai come in questa fase è stata evidente la distanza tra necessità concrete, collettive e basilari, e la capacità politica di chi ci governa.

Il problema di fondo è che manca una classe dirigente degna di questo nome, così come latita una consapevolezza diffusa circa la nostra soggettività storica (tutti a commuoverci per lo spettacolo sciovinista di Benigni a Sanremo, noi italiani “speciali”!), manca un senso di appartenenza esplicito e cosciente alla nostra terra e alla nostra collettività. Lo sguardo è sempre perso verso l’orizzonte a est, il pensiero piegato sotto il peso di sindromi di subalternità e fatalismo.

O ce ne rendiamo conto e cominciamo ad assumerci la responsabilità di noi stessi, a partire dalle piccole cose e anche dalle scelte banalmente elettorali, o le peggiori previsioni statistiche non potranno che avverarsi.