Hannah Arendt riconosceva nella Modernità un passaggio simbolico e semantico determinante, per la narrazione di sé degli esseri umani, per i nostri processi di identificazione: l’imposizione del modello di vita centrato sul privato, sull’individuo e la famiglia e i loro interessi particolari. “Privato” è un termine che presenta immediatamente un significato negativo, perché significa avere qualcosa di meno, essere appunto “privati” di qualcosa. Questo perché a lungo, dall’antichità all’epoca pre-moderna, la sfera di realizzazione personale dell’individuo è stata propriamente quella pubblica. Tu sei ciò che fai con gli altri, a prescindere da quello che sei o che fai entro le mura domestiche o dai tuoi successi individuali. La sede del valore di una persona è il pubblico, la relazione, il riconoscimento da parte della comunità.
Non è difficile per noi sardi capire cosa intendesse la filosofa tedesca. In molte nostre comunità, specie fuori dai grandi centri urbani, questo tipo di dinamiche è in gran parte ancora vigente. Per avere un riconoscimento della propria persona ci si deve “saper comportare”, si deve avere una modalità di interrelazione corretta, secondo canoni e norme non scritti, ma cogenti. Dalle situazioni conviviali ai modi di socializzazione più formali, dalle circostanze quotidiane e quelle di festa e di celebrazione, ci si deve attenere a una serie di regole di comportamento piuttosto stringenti, ancorché non percepite come tali.
Alcuni tratti della personalità che la modernità capitalista ha esaltato come virtuosi, in questo diverso contesto culturale sono meri vizi, difetti a volte severamente condannati. Per esempio l’attaccamento al denaro, la scarsa propensione alla condivisione delle risorse. Sono cose che si imparano frequentando quella che Mialinu Pira definiva la “scuola impropria”: a bottega, al tzilleri, in piazza, durante la festa, negli incontri con conoscenti, ecc. Codici, regole, convenzioni che vengono metabolizzate in virtù dell’esempio e dell’esperienza diretta. E, alla base, un fondamentale principio di eguaglianza, a prescindere dalle condizioni personali, economiche, sociali, culturali, ecc.
Questa impostazione culturale pre-moderna (che si avvia a diventare post-moderna) è a mio avviso più connaturata in noi di quella individualista. Siamo animali sociali. Non esiste un’umanità possibile all’infuori della nostra specifica denotazione come parte di una collettività. Quando Aristotele definiva l’essere umano come “animale politico” in fondo sanciva filosoficamente una verità biologica, naturale.
Ecco perché tutto l’apparato egemonico fondato sull’individuo e l’individualismo è di suo patogeno, generatore di conflitti insanabili, di violenza, di povertà. Purtroppo, è anche uno degli elementi fondamentali del capitalismo, quindi della Modernità stessa. Ma la Modernità ha anche prodotto, parallelamente, gli antidoti a questa pulsione egotica primaria: i principi di libertà, eguaglianza e fraternità, le lotte di emancipazione sociale e di genere, l’assunzione di responsabilità ecologica, tutto l’apparato di diritti dell’umanità.
Sarebbe opportuno far emergere in tutta la loro portata le nostre caratteristiche culturali profonde, laddove intersecano le pulsioni più feconde ed emancipative della Modernità. Far coincidere il nostro spirito pre-moderno con la post-modernità in costruzione ci consentirebbe di affrontare la grande crisi in corso con qualche risorsa in più e magari con un identificazione collettiva meno legata all’egemonia massmediatica e ai complessi di inferiorità di cui tanto palesemente ancora soffriamo.