Sa di’ de s’acciappa

Ed eccoci qui, a celebrare per l’ennesima volta sa Die de sa Sardigna. Ricorrenza che forse meriterebbe più attenzione e più consapevolezza, e molta meno retorica.

Ma oggi c’è un aspetto della faccenda che mi ronza nella scatola cranica. Leggo (sul IlGdiSardegna di oggi, versione Sud) che l’assessore alla cultura (!?) di Cagliari, tale Nonsocosa Pellegrini, giudicherebbe i tavolacci gettati sopra l’anfiteatro romano della sua città un vero toccasana, mentre, senza di esso, là ci sarebbe solo un burrone con qualche sbalzo pietroso malamente sbozzato: una rovina inservibile. Certo che quanto a sensibilità per le vestigia della nostra storia siamo messi bene. E lo dico pur non ritenendo che l’archeologia romana sia la più significativa, in Sardegna.

Provo a cambiare giornale e anche genere di notizie e mi imbatto nelle espressioni di gaudio per l’ennesimo scempio del nostro territorio e delle nostre intelligenze: lo sperpero di 600 milioni per riavviare la centrale di Fiumesanto (SS). I sindacati esultano, i lavoratori tirano un sospiro di sollievo e i politicanti incassano le promesse di voto per le imminenti amministrative sarde.

Ah, dimenticavo: la centrale contano di riavviarla… a carbone! Non sto scherzando. Le cronache di oggi parlano chiaro.

Insomma, dove caschi, caschi male.

Allora mi torna in mente la ricorrenza odierna. Il 28 aprile 1794…

Un bel giorno limpido di primavera, come solo a Castel di Callari se ne vedono, magari già un po’ caldo, ma che importa. La città è apparentemente tranquilla, benché da mesi la tensione sia palpabile. Ognuno pare affaccendato nelle sue solite occupazioni. Gli scaricatori del porto smistano colli e casse dalle navi ai magazzini. I piccioccus de crobi girano servizievoli coi loro canestri da un signore appena sbarcato a una serva di casa che compra il pesce, o importunano i passanti. Gli artigiani tengono aperta la bottega, con l’orecchio teso verso il Castello. Gli sfaccendati cercano di vendersi qualche vociferazione per un bicchierino di quello buono. La guarnigione intanto se ne sta sulle sue, in attesa di ordini. Il vicerè poltrisce, sperando di non dover prendere decisioni per le quali non è preparato.

Poi, non si sa come, una voce corre da Stampace alla Marina, dalla Marina a Villanova e fa il giro delle mura e le scavalca, raggiungendo i villaggi vicini e i campi verdi di grano nuovo. Stanno arrestando qualcuno, non si sa bene chi. I piemontesi (maledetti siano!) tentano di soffocare ogni speranza di giustizia. Qualcuno giura di aver sentito una chiamata alle armi da parte dei signori dello stamento militare. Le campane suonano.

La folla si raduna. Solo pochi riescono a mettere le mani addosso a quelli che traducevano in galera dei cittadini benemeriti. Com’è che si chiamano? Gli animi però anziché placarsi si esagitano. C’è chi grida al tradimento. Si proclama la colpevolezza del viceré e di tutti i suoi funzionari. Anzi, di tutti i piemontesi! “Buttiamoli a mare!” grida qualcun altro. E la Storia finalmente si prende ciò che le spetta.

Per tutto il giorno è un continuo rimpiattino, un guardie e ladri dove le parti spesso sono invertite. Se non rispondi “cixiri” sei automaticamente uno degli “altri”. Il Palazzo è preso. I militari se la fanno sotto. La città è in mano ai rivoltosi. La notizia già corre per le campagne verso il Capo di Sopra. I signori, i ricchi e il vescovo in persona si votano a Santu Efis. Che ne dirà il re?

Ma il popolo è clemente. La caccia all’uomo (e alla donna e a tutti quanti, animali domestici compresi) si risolve in un fermo invito a imbarcarsi immediatamente per la Terramanna. Due ali di folla muta, con una severità nello sguardo che solo la consapevolezza del giusto può dare,  osservano il corteo di signori in palandrana e signore in cappello e abiti assurdi e scomodi (ma bellissimi) calcare l’acciottolato delle vie, dai loro palazzi alla Marina. Mica è vero che tutti se la svignarono in carrozza.  E poi lì, sulla banchina del porto, cupi e umiliati. E via sulle passerelle un po’ traballanti, con i signori a reggere il gomito delle signore dalle scarpe inadatte a quel genere di passeggiata.

Le navi salpano. Un grido liberatorio scarturisce dalle ugole. Quella sera e i giorni successivi si fa festa.

La Sardegna è libera. La Nazione è salva. E’ un’ebbrezza, un’esaltazione collettiva, una sensazione di forza e di gioia condivisa. Sarà un’estate di libertà e di autogoverno, senza padroni stranieri, senza approfittatori forestieri (che ci bastano i nostri, per quello… ).

Sa di’ de s’acciappa

Ecco, questo mi viene in mente leggendo le notizie sconfortanti sui giornali di oggi. E mi viene anche in mente che sarebbe proprio bella, liberatoria, uno di questi giorni, un’altra giornata così!