Perché non possiamo non parlare di scuola

Anche in Sardegna, sembra con qualche motivo di sorpresa, comincia a manifestarsi in tutta la sua evidenza quella che può definirsi una delle vere emergenze sociali, culturali, politiche ed economiche di questi tempi. Benché altre fanfaluche, abilmente propalate, occupino più facilmente le prime pagine dei notiziari, non si può negare che la destrutturazione sistematica e deliberata della scuola pubblica in Italia – e di conseguenza, con effetti addirittura più dirompenti, in Sardegna – abbia ormai acquisito i tratti di un vero dramma civile.

Quale sia il disegno complessivo dietro le varie misure adottate dall’attuale governo italico e da quelli che l’hanno preceduto negli ultimi quindici anni mi pare abbastanza chiaro: il perseguimento della deprivazione culturale, cognitiva e critica della gran parte della popolazione. Il perché è altrettanto evidente: uno Stato per sua origine e natura debole, mal assemblato e di matrice smaccatamente classista come l’Italia non può garantire il livello di controllo delle risorse e i privilegi acquisiti alla propria classe dominante se non basandosi sull’ignoranza generalizzata, la mancanza di senso critico e la disarticolazione sociale. In quest’ottica, il lavorio mediatico degli ultimi trent’anni è stato piuttosto efficace. Demolire uno dei pochi contraltari esistenti (una scuola pubblica potenzialmente libera, aperta ed efficiente) è un metodo efficace di debilitare il sistema immunitario collettivo. I risultati li stiamo già vedendo.
Per la Sardegna le conseguenze sono inevitabilmente di portata più ampia. Oltre a privare di strumenti cognitivi una popolazione già largamente penalizzata culturalmente, con i tagli e i ridimensionamenti del sistema scolastico pubblico si contribuisce al depauperamento demografico in corso, specie nelle aree interne dell’Isola. Corriamo il serissimo rischio che la famosa maledizione dei “pocos, locos y mal unidos” trovi compimento sub specie scholae: “pochi” (abbandono dei centri abitati minori, con conseguente abbandono del territorio e perdita netta di cultura e di coesione sociale); “scemi”, ossia intellettivamente inadeguati a comprendere ciò che ci circonda, privi di strumenti cognitivi e critici per vivere nella complessità del mondo contemporaneo; “disuniti”, infine, dal crescente impoverimento delle strutture di base della convivenza civile e dalla alienazione dovuta all’abbandono forzato dei propri luoghi d’origine, nonché dalla totale ignoranza della nostra storia e dei processi che la determinano.
La scuola pubblica, la scuola pubblica italiana per essere più precisi, in Sardegna ha una grave responsabilità  culturale e politica. Non per questo si può negare che, nel lungo periodo, l’alfabetizzazione di massa, benché avvenuta in forme e secondo criteri alquanto discutibili, abbia contribuito all’aumento di consapevolezza dei sardi, tra anni Sessanta e Novanta del secolo scorso. Attendersi che sia l’Italia a mettere rimedio ai guasti da essa stessa prodotti è utopico, certo, ma almeno pretendere che lo stato non distrugga quel minimo di strutture fondamentali che, a malincuore e sempre con risparmio di risorse, ha comunque messo in piedi sull’Isola, in questo momento mi sembra il minimo. In attesa di poter decidere noi anche su questo aspetto fondamentale della nostra vita associata.