Approccio contrastivo

In queste settimane estive i media trentini danno ampio spazio ad un dibattito apparentemente insulso, ma che ha invece diversi risvolti interessanti e vari livelli di lettura. Ne parlo qui a mo’ di termine di paragone, per un fatto di ricorrenze storiche quasi contemporanee.

Veniamo al casus belli. Qualche settimana fa è venuta alla luce (per vie che solo i capi redazione conoscono) una voce di spesa del bilancio provinciale trentino relativa all’acquisto di divise nuove per il corpo degli schutzen, una milizia locale tirolese dei tempi degli Asburgo (XVIII-XIX secolo). Pare che tale acquisto non fosse una misura di favore verso questa milizia in particolare, bensì si inserisse in una voce di spesa più cospiscua, come spiegato dai promotori. La notizia ha avuto nondimeno ampio risalto e non è ancora cessato il dibattito sui significati reconditi o palesi di tale concessione, sulle sue giustificazioni storiche, sulla opportunità politica dell’iniziativa.

Naturalmente, in molti si sono scagliati contro un esborso di denaro pubblico non proprio rispondente a criteri di necessità collettiva. Basti dire che la spesa per queste meravigliose divise storiche è dello stesso ordine di grandezza, ma più cospicua, dei tagli al bilancio dell’università trentina sulle biblioteche di ateneo (la Provincia Autonoma di Trento cotribuisce per circa la metà al bilancio complessivo dell’ateneo tridentino: 80 mln di euro su circa 150 complessivi). E questo è solo un esempio tra i tanti possibili.

Quel che colpisce me, da sardo, è tuttavia un altro aspetto della vicenda. Gli schutzen erano una milizia campagnola che respinse in qualche modo le truppe napoleoniche, in seguito all’annessione della Baviera all’impero francese e al susseguente attacco al Tirolo (di cui il Trentino allora era parte). A capo della ribellione anti-napoleonica si pose un commerciante nonché locandiere, tale Andreas Hofer, il quale, dopo la clamorosa disfatta dell’esercito invasore e la sua successiva cattura ed esecuzione a Mantova, assurse al rango di eroe nazionale tirolese. Gli anni in cui si svolsero tali vicende sono quelli che qualsiasi appassionato di storia moderna europea trova citati ripetutamente: 1796-1799 e 1809-1810. Nel primo caso si tratta degli anni in cui alcune valli trentine resistettero all’avanzata napoleonica; nel secondo si tratta appunto del periodo in cui ebbe corso la ribellione di Hofer e dei tirolesi ai franco-bavaresi. Nell’insieme una vicenda che somiglia in qualche misura alla più nota “rivoluzione” napoletana, che condusse un’elite progressista di idee illuministe ad impadronirsi di Napoli salvo poi essere soppressa da un moto popolare di stampo reazionario. Anche nel caso tirolese il moto di resistenza, oltre che un carattere spontaneo di ribellione all’invasore straniero, ebbe il sapore di una reazione ideologica alle idee nuove che arrivavano dalla Francia. I valori tradizionali di attaccamento alla propria terra, alla famiglia, e alla fede cristiana furono un ingrediente determinante nelle vittoriose gesta degli schutzen.

Il fatto rilevante, in questo caso, è che se ne sia parlato molto, in questi mesi, e che si sia in qualche modo aperto un confronto, a volte più pretestuoso a volte più meditato ed elaborato, su tali vicende storiche e sui significati che esse hanno oggi, sui valori che ci trasmettono, sulla loro emblematicità. Caso alquanto diverso rispetto alla sostanziale rimozione di qualsiasi dibattito aperto e libero sui paralleli fatti sardi: la ricacciata in mare dei Francesi del febbraio 1793 e le successive vicende rivoluzionarie, tra 1794 e 1812.

Tuttavia, al di là della denuncia di un silenzio quanto mai imbarazzante, ma forse preferibile alle sciocchezze propalate nelle poche occasioni in cui il periodo in questione è stato rievocato (con un Angioy dipinto come un eroe “dell’autonomia” sarda, se non proprio come un precursore del risorgimento italiano!), quel che mi colpisce e che dovrebbe indurre ad una riflessione profonda è il senso stesso di quelle vicende e la loro dinamica interna. Il paragone con gli analoghi fatti tirolesi e napoletani è quanto mai rivelatore.

La Sardegna fu probabilmente la prima area europea a reagire alla ventata di novità che arrivava dalla Francia. Nonostante il respingimento della flotta francese, di sapore non tanto patriottico quanto di auto-protezione da parte dei ceti privilegiati sardi, si sa per certo che le idee illuministe e rivoluzionarie circolavano da tempo sull’Isola. Il fatto che così prontamente un moto di orgoglio aristocatico, quale fu la difesa dal’invasione francese e la formulazione da parte dello stamento militare delle famose “cinque domande”, si sia repentinamente trasformato in un moto rivoluzionario di stampo nazionale (sardo) e repubblicano può solo significare che il terreno era fertile e tali istanze innovative largamente condivise, seppure a vari livelli di interpretazione e con diverse prospettive.

Questo è un aspetto ben poco sottolineato (se non da pochi storici un po’ meno “timidi”, come Federico Francioni, tanto per citarne uno ancora in attività), eppure è un tratto saliente dal significato assolutamente extra-locale dei moti rivoluzionari sardi. Il problema, qui sta il busillis, è che mettere in luce tali peculiarità costringerebbe la storiografia mainstream (tanto italica quanto isolana) a rivedere buona parte del suo apparato metodologico e critico, nonché una “versione dei fatti” ormai “ufficiale” e politicamente utile, con risvolti a cascata su gran parte della storiografia moderna e contemporanea relativa alla Sardegna e alla stessa Italia. E questo non sta bene, pare. Specie nel periodo di preparazione delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unificazione dell’Italia. Data controversa e a suo modo tragica quant’altre mai.

Sarà necessario tornarci su, dunque. E naturalmente lo faremo.