Era una domenica, il 30 giugno di seicento anni fa. Un giorno ignorato dai libri di storia. Un giorno fatale. In storiografia non è lecito né utile spiegare tutto sulla base del mero avvenimento, ma un singolo avvenimento può essere simbolicamente significativo. Oltre, naturalmente, a costituire uno spartiacque, un “prima di” e un “dopo di”, che senza di esso non ci sarebbero stati.
Ci sono avvenimenti di questo tipo, singolarità del processo storico che riassumono antefatti complessi e dispiegano significati nel futuro. La Battaglia di Sanluri (sa Batalla de Seddori) è uno di questi.
In una assolata domenica di fine giugno, con i fuochi delle feste di prima estate ancora caldi e decenni di guerra alle spalle, si arrivò alla resa dei conti tra due eserciti, due sovrani, due popoli. Non era più la classica guerra feudale. Forse non lo era mai stata. Era lo scontro per la vita e per l’esistenza come soggetto storico tra i sardi (la naciò sardesca delle fonti iberiche, sa republica sardisca della Carta de Logu) e i catalani, popolo egemone del potente regno di Aragona.
Comunque si fosse arrivati a quel momento decisivo, ormai non contava più. Quel che era certo era che chi fosse uscito vincitore da quel “giudizio di Dio” avrebbe ottenuto l’intera posta in palio: il dominio sulla Sardegna.
Migliaia di sardi, mal comandati (quasi solo da stranieri), al seguito di un sovrano imbelle e poco amato, scesero in campo contro uno degli eserciti più forti dell’epoca, guidato dal grande condottiero Pedro Torrelles e dal re di Sicilia e infante d’Aragona Martino il Giovane. L’epistolario tra i comandi catalani e il re d’Aragona, Martino il Vecchio, rende bene l’attesa e la preoccupazione per uno scontro dall’esito per nulla scontato. Era da decenni che i sardi sconfiggevano, a volte clamorosamente (come nel 1368, a S. Anna, presso Oristano, o nel 1391, sotto la reggenza di Eleonora), gli eserciti catalani. La guerra era stata una causa di indebolimento finanziario e di perdita di prestigio internazionale per la casa dei conti-re barcellonesi e per la Catalogna. Un’altra sconfitta avrebbe decretato una sentenza storica difficilmente appellabile. I sardi, dal canto loro, arrivavano alla prova decisiva estenuati da decenni di conflitto, dall’imperversare della peste nera e dalla crisi economica generale che, insieme al resto, colpiva l’isola in quegli anni.
L’esito dello scontro è ben noto (o dovrebbe esserlo). Dalle parti di Sanluri, oltre a su Bruncu de sa Batalla (il poggio della battaglia), esiste un luogo dal nome inquietante: s’Occidroxiu, il Macello. Lì venne stroncata l’ultima resistenza di quel che restava dell’esercito dei sardi, mentre Guglielmo di Narbona, zuighe arborense, immeritevole erede e successore di Mariano IV ed Eleonora, scappava con i suoi cavalieri francesi verso il castello di Monreale.
La sconfitta fu disastrosa. Eppure, non sarebbe lecito attribuire ad essa tutto ciò che ne seguì. La storia ha percorsi che spesso rispondono a logiche diverse da quelle della forza pura e semplice e l’inerzia dei processi profondi ha la meglio sul singolo evento. I catalani alla fine ottennero quel che volevano non con la forza delle armi, ma per tradimento (conquista di Oristano) e per compravendita (del titolo e del territorio da Guglielmo di Narbona). Ma anche la stagione della potenza catalana era finita. Proprio nel momento del massimo trionfo, l’ultimo erede della casata barcellonese, Martino il Giovane, morì a Castel di Calari (l’attuale Cagliari) meno di un mese dopo la battaglia di Sanluri. Un fatto che, a dispetto della vittoria conseguita, ebbe conseguenze drammatiche per la Catalogna e il suo ruolo politico. Fino ai giorni nostri. Una nemesi che, purtroppo, può consolare ben poco gli sconfitti di allora. Noi.
La memoria di questi eventi, ben viva in Catalogna, è stata a lungo rimossa in Sardegna. Nessun libro di storia, tra quelli su cui i sardi per generazioni hanno studiato, li riporta. Troppo difficili da incastrare nell’arrangiato collage della storia d’Italia. Troppo forti, dal punto di vista simbolico, per non aver anche potenziali (e “pericolosi”) esiti politici.
Quanti di noi celebreranno oggi la memoria di quell’episodio di seicento anni fa? Quanti sapranno attribuirgli il giusto significato? Pochi, temo.
Nell’opuscolo che presenta le commemorazioni di questi giorni, prodotto dalla pro loco di Sanluri, a pag. 7 c’è la dimostrazione di quanto ancora venga tradito, consapevolmente o inconsapevolmente, il senso di un passato ingombrante. “Dove morirono la Catalogna e la Sardegna e nacque l’Italia” si dice testualmente. L’Italia! Cosa mai avrà a che fare un’espressione geografica aliena con un fatto del 1409 riguardante sardi e catalani è un mistero che varrebbe la pena di chiarire. L’Italia, intesa come stato e come comunità nazionale, non solo allora non esisteva, ma nemmeno era nella mente di alcuno. Quell’evento, quei decenni di conflitto, i processi culturali e politici che li avevano prodotti, avevano un loro senso, una loro portata simbolica, cause ed effetti che solo la compulsiva applicazione di una ideologia può denotare come la premessa storica dell’Italia.
Allora eravamo sardi, la nazione sarda, che lottava per la propria libertà (per la “liberazione della patria”, recitava la campana bronzea di Ugone III, fusa nel 1382), per la propria dignità. Questo prima ancora che tali processi di identificazione prendessero piede nella modernità europea.
E allora ricordare oggi quell’evento e quell’epoca non dev’essere la stanca commemorazione di una sconfitta, da “nazione fallita”, ma deve essere la riconciliazione con un passato in cui eravamo sovrani, eravamo un “noi” che si confrontava con le altre collettività umane come soggetto attivo della propria storia. Deve essere la base per guardare al futuro con uno sguardo diverso, libero, aperto. Da consapevoli abitatori di questa terra preziosa, eredi di una storia grande della cui altezza dovremo mostrarci degni.