La sconfitta di Renato Soru alle elezioni sarde è seconda solo alla sconfitta dei partiti che (nominalmente) lo sostenevano.
Ciò che esce perdente dalla tornata elettorale, però, e forse in modo definitivo, sono l’idea del sardismo e, dal punto di vista politico-istituzionale, la stessa autonomia regionale.
Il sardismo, come sentimento di orgoglio identitario trasposto in azione politica, era già logoro e ormai svaporato nell’insignificanza da almeno venticinque anni. La constatazione della sua diffusione tra tutti gli schieramenti politici (compresi quelli di matrice comunista e gli ex-fascisti), gran motivo di vanto per i nostalgici sardisti ancora all’opera in ambito pubblico, è in realtà la dimostrazione lampante del suo esaurimento storico. Che Renato Soru, così “moderno” e rivolto al futuro, pensasse di conquistare qualche consenso in più presentandosi come il depositario più autentico dei sentimenti sardisti (simboleggiati dal velluto con cui si è ricoperto nel corso della campagna elettorale e dai richiami a Emilio Lussu), dimostra in quali equivoci possano incorrere anche gli uomini più preparati. Ai sardi non dice granché oggi il fatto che ci si appelli a questa forma di identificazione collettiva para-nazionalista (un nazionalismo da bambini un po’ tocchi, inoffensivo, da “nazione fallita”, sempre al limite del patetico). Quando c’è la percezione di una crisi economica sempre più grave (la Sardegna è sempre stata in crisi, sin dai tempi dei Savoia: le soluzioni escogitate – dall’alto e dall’esterno, secondo la tipica dinamica top-down – l’hanno sempre aggravata), non è certo l’orgoglio di appartenere ad una minoranza sotto tutela a riempire la pancia. Certo, che una terra dalle notevoli potenzialità come la Sardegna sia tenuta in questo stato di coma indotto, ha i suoi perché e le sue conseguenze anche culturali e nell’immaginario collettivo. Ma pensare di sconfiggere il complesso di inferiorità dei sardi facendo appello alla loro sardità, è come dire al malato che la sua salvezza sta nella malattia: i fatti dimostrano che è quanto meno insufficiente a conquistarne la maggioranza dei voti. Tanto più che i sardi vedono riempiti i larghi vuoti di senso, prodotti dalla deprivazione storica e culturale cui sono da decenni sottoposti, tramite modelli culturali, linguaggi e un universo simbolico prodotti direttamente dalla televisione. E, per giunta, da una televisione berlusconizzata (com’è tutta la tv maistream italica). Se l’idolo delle folle isolane è un giovanotto sardo di periferia che vince un concorso canoro su una rete del gruppo Mediaset (Berlusconi), guarda caso non molti mesi prima delle elezioni (lo fa notare Pino Cabras su Megachip), significa che l’immaginario collettivo è stato ormai pesantemente conformato da tali modelli culturali. E sono quelli maggioritari, benché snobbati da intellettuali e politici di sedicente sinistra (o giù di lì). In definitiva: scelte comunicative nobili nelle intenzioni, si rivelano perdenti di fronte all’opinione pubblica. E qui non entro nel merito della pesante sconfitta dei partiti che appoggiavano Soru, partiti cui Soru stesso era indigesto sin dall’inizio e lo è stato fino alla fine. Poi, si fa presto a dire partiti: rimasugli di nomenklature politiche sclerotizzate, con ben poco da dire per il presente e per il futuro.
Ma veniamo all’autonomia, come modo di regolazione dei rapporti di forza, all’interno di un comune ordinamento giuridico, tra una minoranza che si vorrebbe in qualche modo proteggere o quanto meno legittimare istituzionalmente, e una maggioranza dominante, padrona delle leve politiche sovraordinate. In questo ambito, l’azione di Soru aveva dato qualche speranza a chi auspicava che finalmente l’istituto autonomista fosse riempito di qualche contenuto concreto. Ma i fatti hanno rapidamente dimostrato che, per quanto si professino principi elevati di riscatto storico e si propongano anche misure concrete per realizzarlo, alla fine ciò che conta sono proprio quei rapporti di forza che l’autonomia è ben lungi dal mettere in discussione. Non c’è alcuna possibilità di riscatto storico, di vera emancipazione culturale, economica e politica per i sardi nell’ambito di un sistema che, de jure e de facto, ne sancisce la subalternità ad interessi e a forze esterne. In tale contesto non è possibile (fisiologicamente, non come patologia del sistema medesimo) far prevalere i legittimi diritti dei sardi su quelli, inevitabilmente più consistenti e in ogni caso “sovrani”, dell’Italia (per es. nella faccenda delle “servitù militari”). Presupporre il contrario è un’illusione, ovvero una mistificazione. Ecco che, sconfitta per sconfitta, l’autonomia tocca finalmente il fondo quando al governo della “regione” arriva nient’altro che un facente funzione, un viceré come ne abbiamo avuti tanti. Ancora peggio: un semplice dipendente, ligio all’obbedienza al padrone. In questo caso, lo stesso ordinamento istituzionale, con le sue previsioni giuridiche, i suoi contrappesi e le sue articolazioni, perde ogni significato concreto. Ciò che verrà deciso risponderà a interessi ben determinati, magari in modo formalmente legittimo, ma ormai del tutto al di fuori di qualsiasi sfera di diritti o libertà dei sardi come entità politica collettiva. La stessa cittadinanza, come fonte di riconoscimento giuridico, è del tutto svuotata di qualsiasi contenuto reale, di fronte a forme di prevaricazione impossibili da contrastare, se non agendo eversivamente (e quindi delegittimandosi all’interno del medesimo sistema che si vorrebbe correggere e far funzionare).
La fase di transizione storica attraversata dalla Sardegna non può che presentare simili situazioni di stallo, in questo caso aggravato da una situazione generale dello stato di cui l’Isola fa parte e dalla crisi generalizzata a livello planetario. Ma questo sarebbe quasi il minimo. La vera disgrazia, contingente ma non per questo meno grave, è che i nuovi padroni della Sardegna faranno di tutto per spolparne l’osso, per arricchirsi il più possibile finché si può, consumando quanto resta del territorio, della storia, della medesima coscienza di sé dei sardi. Gli strumenti (politici, economici, mediatici) ci sono tutti e la volontà non sarà certo frenata da scrupoli di coscienza.
Rimane la consapevolezza che si può uscire da questo pantano lavorando ad un ribaltamento di senso generalizzato, ad una vera rivoluzione nel rapporto che i sardi hanno con la propria terra, con sé stessi come popolo e con l’esterno. I prodromi ci sono già (l’unico movimento che abbia guadagato voti, a parte quelli schierati con Berlusconi, è stato iRS-indipendentzia Repùbrica de Sardigna: un risultato che ha risvolti ben più significativi del dato numerico preso in sé stesso). Si tratta di far crescere la consapevolezza generale, il grado di informazione e di istruzione, di offrire prospettive, progetti politici, linguaggi, universi simbolici diversi e alternativi a quelli dominanti, e di contrastare con tutte le forze la deriva reazionaria e predatrice in corso.