Momento interlocutorio

I sardi in questi giorni, in queste ore, si apprestano a rinnovare l’organo legislativo della Regione Autonoma Sardegna e il suo governo. Una scadenza democratica naturale. Ma di questi tempi, nulla sembra più ordinario, normale. Tanto meno in Sardegna, la terra del non-senso eretto a fondamento di un intero sistema.

Per quanto i toni da campagna elettorale tendano a validare la tesi dell’ora fatale, del momento decisivo, ad uno sguardo lungo e disincantato appare chiaro che si tratta invece di un momento assolutamente interlocutorio. Il processo innescato negli anni Sessanta e Settanta con l’alfabetizzazione di massa (sia pure all’interno di una semiosfera “altra”, figlia di dinamiche di dominio, ossia quella italiana), che faceva parlare Mialinu Pira di “rivolta dell’oggetto”, non si è affatto concluso, anzi ha ormai preso una china da cui sarà difficile deviarlo. Le inerzie storiche di queste dimensioni non sono facili da arrestare. Non so se la classe dominante e “padronale” cui fa largamente riferimento la politica partitica sarda lo sappia consapevolmente o semplicemente lo intuisca. Forse non ne coglie la reale portata.

Lo schieramento che dipende dal piccolo dittatore italiano, col suo candidato fantoccio, sa benissimo cosa fare, come muovere le proprie potenti armi mediatiche, e ha già chiara anche la strategia per l’eventualità che riconquisti il governo dell’Isola: smantellare tutto ciò che di buono, liberatorio o puramente civile è stato fatto o conquistato negli ultimi anni e riprendere il saccheggio materiale e la sottomissione culturale della Sardegna. Questo è chiarissimo.

Dall’altra parte si presentano due tendenze, non ostili tra di loro ma di fatto inconciliabili. Una, ancora predominante in termini pratici, ma debitrice all’altra dell’orizzonte di senso cui attinge, vede la Sardegna come una “regione”, sia pure speciale, forse anche molto speciale, di un’unità più grande, l’Italia (la grande patria sovraordinata alla piccola patria sarda), cui comunque far riferimento. Essere sempre più speciali, sempre più riconosciuti come una minoranza, come una specie preziosa da tutelare, è la reale meta politica di questo schieramento variegato. L’altra, grosso modo rappresentata da due movimenti, ma in realtà più vasta e simbolicamente più forte, è l’area indipendentista. In questo caso non si tratta di aspirare a riconoscimenti altrui, bensì di emanciparsi compiutamente in termini politici, nel continuum storico umano, sotto forma di ordinamento giuridico sovrano. Nessuna rivendicazione di specialità, in questo caso, bensì l’esatto contrario: una sana e adulta normalità. Ovviamente, queste due macrocomponenti (quella autonomista e quella indipendentista) concorrono nel tentativo di scongiurare la conquista della Sardegna da parte della classe parassitaria e speculatrice incarnata dal suo duce supremo. Ma inevitabilmente senza sovrapposizioni, un po’ per volontà, un po’ per l’inevitabilità dell’attrito tra due aspirazioni inconciliabili.

In tutto questo, tuttavia, bisogna tener conto dei sardi e, tra i sardi, dei tanti che non hanno compiuto, per pigrizia ma spesso per mancanza di mezzi (ivi compresi i media: scuola, giornali, televisioni e quel poco di Rete fruibile in Sardegna), un reale percorso di auto-identificazione; che sono ancora indecisi prima di tutto su sé stessi, sul proprio senso di appartenenza, su ciò a cui possono aspirare per il futuro. È una massa di cosiddetti indecisi (in termini elettorali) che avrà il suo bel peso, al momento del voto.

In questo frangente basterà davvero poco a far pendere la bilancia elettorale da una parte o dall’altra. Certamente si riscontrerà una crescita numerica della parte indipendentista. I partiti tradizionali, di matrice italiana, debitori del proprio status e della propria forza politica verso le rispettive case madri continentali, otterranno il consenso che il loro apparato clientelare e i potenti mezzi economici a disposizione concederanno loro. Chi avrà i numeri per governare, tra i candidati alla presidenza, si saprà solo lunedì 16 febbraio.

Ma non cambierà molto, a medio e lungo termine.

Una vittoria della composita coalizione c.d. di centrosinistra proporrà un presidente forte e uno schieramento debole e diviso. La vittoria della coalizione di destra si ritroverà con un presidente debolissimo e una coalizione fortissima, dal potere ricattatorio enorme. In entrambi i casi, si tratterà di governi deboli, non si sa quanto duraturi. La presenza di una componente indipendentista in consiglio regionale potrebbe influire in qualche misura sull’agenda politica, o almeno contrastare e denunciare le operazioni più subdole e speculatrici. Ma soprattutto potrebbe avviare quella mutazione della classe dirigente verso una presa di responsabilità collettiva di tipo diverso, indirizzata a dare realizzazione concreta alla necessità storica evidente di una nostra piena sovranità.

Come si vede, siamo ben lungi dal trovarci dinanzi ad una svolta decisiva. Il processo potrà essere rallentato o accelerato, frustrato in qualche misura o incentivato. Ma ciò succederà in massima parte a prescindere dall’azione dei protagonisti politici della vicenda. In questi termini chi può dire se sarà più salutare per i sardi una ripassata di berlusconismo in salsa sarda o il dominio decisionista di Renato Soru?

Credo che una volta tanto un ruolo non marginale lo avranno gli intellettuali, gli artisti, i produttori di senso. Coloro che sono già emersi dall’apnea identitaria marginalizzante e respirano l’aria del mondo, in un orizzonte a 360°. Potrebbero essere gli apripista, i facilitatori di una presa di coscienza collettiva senza ritorno.

Ma saranno comunque gli anni a venire a darci responsi su questi dubbi, su queste premonizioni. Non certo il risultato di queste elezioni.

P.S. Per dare un senso concreto a quanto appena detto, invito tutti alla visione di queste due perfrormance letterarie (Bologna, 9 febbraio 2009): Michela Murgia e Alberto Masala.