L’isostenibile leggerezza del non-essere

Riporto qui di seguito la risposta di A. Mongili, uscita sull’Altravoce.net al mio ultimo post (anch’esso pubblicato sul medesimo giornale on-line) e la mia replica (in attesa di pubblicazione).

 

Di Alessandro Mongili

In un suo articolo severo ma sbrigativo Omar Onnis ha liquidato sardismo, autonomia, Emilio Lussu e, parrebbe, Renato Soru su un altare con l’effigie di Marco Carta. In breve, se non ho capito male, il nostro sostiene che il sardismo (con l’autonomia) è fallito e non è altro che la faccia perbene e illusa della subalternità. Che noi siamo colonizzati dalla tv mainstream italica, e che ogni battage elettorale sull’identità è votato in questa situazione a non essere risolutivo perché invece proprio questo peccato originario (identità-autonomia-lussu-soru) è la causa della presa di potere dei nuovi viceré con la loro corte di podatari.

L’articolo è pieno di frasi intelligenti e stimolanti, almeno per me. Però non capisco bene che cosa Omar Onnis proponga, e ancora quale sia la sua analisi della situazione esistente. Personalmente, credo che la cosiddetta identità sarda si sia formata negli occhi di chi ci ha dominato, e probabilmente secondo un canone implicito redatto dai pallosissimi viaggiatori stranieri in Sardegna che non facciamo altro che ripubblicare (e credo pure che un sacco di gente si legga queste stupidaggini per sapere “che cosa si pensa di noi”, un po’ come molti vorrebbero partecipare al proprio funerale per la stessa ragione). Da qui a dire che il sardismo è morto ce ne passa, poiché si tratta di un fenomeno politico-ideologico di grande spessore per la nostra storia, e perfino estremamente contraddittorio, anche se anche a mio avviso è anticaglia ma si sa che l’anticaglia può essere ripescata per molti fini e diversi, e ritrovare nuova vita, come mostra l’attuale papato o, su altri versanti, la vicenda del neogotico statunitense in architettura ecc. ecc.

Io ogni giorno ho una ragione in più per diffidare di chi riporta tutti i fenomeni a una sola causa. Nel caso dell’esecrando evento del 15-16 febbraio scorso (che nel Seicentesimo anniversario del 1409 mi fa seriamente pensare che questi anni in ’09 portino mortalmente sfiga alla nostra bellissima e amatissima terra, nonostante generazioni di coghe sardesche abbiano fatto di tutto po sindi bogai calichisiat ogu). Diffido di chi, trovata una remota causa (magari in una lettera privata di Emilio Lussu piuttosto che nel XVI Comizio dell’Ottava giornata di Campagna elettorale di Renato Soru – in se, questo, un evento eroico) assegna con certezza ma con scarso fondamento a tale errore una catena di sconfitte inanellate l’una successivamente all’altra che ci ha portato a perdere tutti quei voti in Oppilandia per cui poveri noi e povera Sardegna!

Bene, io osservo l’esecrando evento (d’ora in poi, EE) come un problema del quale non abbiamo la soluzione a portata di mano. Invito tutti, e in particolare molti commentatori radiofonici, a riflettere sul fatto che l’unico attore della scena non era Renato Soru, che molte scelte fatte degli elettori non sono neanche descrivibili se non le studiamo: tantomeno analizzabili due ore dopo con tutta quest’aria di certezza. Al limite sono ipotesi.

Quello che è successo (EE) è un punto di passaggio di tanti processi molto diversi fra di loro, che provo ad elencare (so già che l’elenco sarà incompleto): l’inesistenza del PD in generale e del PD sardo in particolare; l’esistenza di un signore che è presidente del Consiglio e tante altre cose e che si è nella fase precedente al voto scatenato come non mai (e anche di questo ho sentito colpevolizzare Soru che “sarebbe stato il primo a portare a livello nazionale lo scontro”!!!); un’onda lunga del berlusconismo che sinora non si è arrestata e in particolare il risultato delle politiche del 2008 in Sardegna; la crescita di una consapevolezza diffusa rispetto all’insostenibilità del modo di vivere in Sardegna con particolare riferimento al suo sistema politico, e che comunque è stata incarnata da Soru; l’esistenza per ben cinque anni di seguito di un governo della Sardegna che ha fatto politiche e non proclami roboanti; il fatto che nella società del clientelismo e delle élite politiche mediatrici e compradore un governo che governi (che in altri Paesi si usa chiamare “democrazia”, una cosa inaudita dalle nostre parti) sia stata vissuto come marziano (e qui si potrebbe avanzare una bella ipotesi sul “voto plebeo” clientelare e sulla resistenza antropologicamente fondata del 90% dei politici a Soru); l’esistenza di un leader che condivide con moltissimi sardi (a occhio e croce, il 43%, non pochi) ma con pochissimi membri della élite dominante (vittoriosa trasversalmente dopo l’EE ma anche membri-corrispondenti in partibus sinistrorsium) una visione e alcune pratiche “europee”, almeno nelle aspirazioni, e che reputa il levantinismo degli altri un problema ; il rifiuto soriano di trovare mediazioni (come si dice) basse che erano le uniche che i castosauri di sinistra cercassero con insistenza; un’assurda stigmatizzazione (con tratti violenti) di Soru descritto come una specie di pazzo pericoloso, della quale sono responsabili anche tantissime persone di sinistra ma che della sinistra italiana hanno solo i tratti arcaici del conservatorismo e dell’arretratezza culturale, e che la dice lunga su quale fine abbia fatto dalle nostre parti la serietà e la dignità, che egli ha al contrario incarnato con grande sobrietà rispetto alla massa di notabili mediocri e provinciali sotto il cui tallone noi viviamo da troppo tempo; la riproposizione ossessiva, dai fogli e dalle emittenti padronali, di questi stereotipi (anche a livello pop, e penso a certe imitazioni volgari ossessivamente riproposte, e di profondo impatto), condita da una scarsa autonomia professionale dei giornalisti sardi dalle logiche d’appartenenza tribal-clientelari (come di qualsiasi categoria professionale in Sardegna, ad iniziare dall’Università e per finire alle sgarrupatissime imprese edili sarde); l’incertezza e una certa meraviglia/spavento rispetto alla novità rapidamente introdotte del governo di Soru e il desiderio di ritornare al conosciuto, ancorché merdoso, nel quale ci ritroviamo infine tutti risbattuti dopo l’EE; l’esistenza di un certo effet de cour intorno a Soru, e dunque di una corrispettiva fronda perenne e della paura di essere esclusi…

Solo a provare a costruire quest’elenco mi è venuto un certo mal di testa: qual è fra questi l’evento risolutivo, signori commentatori e signori filosofi della causa prima? Soru? Il sardismo? l’Autonomia? la cattiveria di Berlusconi? o altre stronzate passe-partout? Benché tutti questi fenomeni esistano sicuramente, nessuno a occhio e croce appare risolutivo, e su tutto a me appare decisivo il modo in cui queste cose si sono composte assieme in un processo generale binario che ha portato su un lato a una formidabile vittoria della destra e sull’altro alla scomparsa della sinistra e del cosiddetto PD e ad un maggiore definirsi del sorismo come progetto concreto di democratizzazione della società sarda, di un suo consenso popolare vastissimo e di un’intera generazione di attivisti politici che lo sostengono. Che, se si secolarizzasse anche organizzativamente, costituirebbe una di quelle “minorités actives” che, come ci insegna Moscovici, portano al mutamento. L’EE non è altro che un punto di passaggio di un processo che non è certo terminato, e che può dirigersi in ogni direzione. Una cosa è certa, contrariamente alle speranze di molti, a destra come a sinistra, il sorismo non è morto lunedì scorso nelle urne.

Non credo che un’ipotetica Repùbrica de Sardigna e neanche un nuovo Statuto d’Autonomia ci possa mettere al riparo dalla marcocartizzazione delle nostre anime, e neanche lo auspico (peraltro non posso esprimermi su questo signore se non per trasmettergli la mia solidarietà nel momento in cui è stato intervistato da un giornalaccio come “Chi”, esperienza che credo possa segnare una vita). Intendo dire che non capisco perché un onesto teledipendente o facebookdipendente non possa anche essere un elettore alluto ed evitare altri EE.

Se posso fare un’osservazione modesta (per tornare all’articolo di Onnis), vorrei dire che la “Sardegna” o i “Sardi” come entità che abbia una vita a sé non esiste se non nei discorsi di chi ci ha dominato e di chi sviluppa un’idea di un noi collettivo. Nella realtà, esiste un’Isola con limiti incerti, attraverso i quali si insinuano in ciascuno di noi elementi di varia provenienza, e che noi utilizziamo nella nostra vita in modi diversi e a cui attribuiamo caratteri “identitari” o meno. Da sempre. L’unica realtà vera è l’occhio che ci guarda, il discorso con cui ci caratterizza, e scemi noi che ce ne facciamo pure un vanto. Per il resto, la nostra vita è attraversata da questa “sardità”, ma è anche piena di tante altre cose, politiche e non politiche: la nostra appartenenza di genere, altre appartenenze minori, il nostro capufficio, il nostro cantante preferito, le bollette, la malattia, il dolore, il desiderio, le liti condominiali, i parenti serpenti, eccetera. Per questo, se abbiamo un’identità, essa è indubbiamente plurale, e, credo con Edward Said, ab initio. Ci costituiamo come sardi nei discorsi, ma viviamo in molteplici appartenenze e in tante identità assommate un pò a grappolo.

E poi, veramente credete che un pezzo di carta, un confine e una bandiera, una legge, possa garantire la nostra indipendenza più di un numero maggiore di teste libere?

 

Ed ecco la mia replica.

Prendo atto con interesse della risposta di Alessandro Mongili al mio pezzo su sardismo, autonomia e subalternità culturale.

Mongili offre una sintesi del contenuto del mio testo abbastanza fedele, almeno per quanto possa esserlo una sintesi, e commenta alcune questioni da me sollevate in quella sede. In sostanza però, sviscerandole e commentandole, mi pare che non faccia che arricchirle di ulteriori argomentazioni. Una conferma, insomma, più che una articolata obiezione.

Il problema sorge quando Mongili riduce un testo di natura storico-politica, come quello voleva essere, alla semplicistica proposta di una “causa prima” della sconfitta elettorale di Soru. Nessuna ricerca di una causa prima, caro Mongili. Io non attribuisco alla sconfitta di Soru tutto il significato epocale e definitivo che amano attribuirgli i suoi seguaci. Nessun Esecrando Evento. Bensì, mera contingenza nell’ambito di un processo più articolato e complesso, non facile da comprendere con lo sguardo miope della cronaca spicciola e delle reazioni emotive alla singola evenienza. Una causa prima, del resto, per propria natura, deve essere singola e non causata, mentre nella mia rapida (ma non “sbrigativa”, per favore) analisi ho proposto una visione di vari epifenomeni che hanno radici diversificate e assai profonde: simboli, più che cause efficienti, di quanto va accadendo nella nostra contemporaneità.

Ma voglio provare ad articolare meglio il discorso e a proporre qualche conclusione.

Una cosa su cui non riesco a concordare è la pretesa, da Mongili apoditticamente espressa, che i sardi siano italiani al 100%. Proprio qui sta l’equivoco. L’italianità dei sardi non corrisponde ad altro che alla congerie di segni, idee e sovrastrutture inculcataci da un sistema mediatico (a partire dalla scuola e poi, con intensità crescente, fino ad arrivare alla televisione) eterodiretto ed alieno. Per altro ben fondato su un sistema produttivo obsoleto, artificiosamente bloccato in una condizione di perenne inefficienza e scarsa reddittività. Il fatto che ancora oggi si ciarli per ogni dove e spensieratamente di identità sarda, esaltando la nostra pretesa specificità, ma sempre assumendone come data la sussunzione ad un ordine di significati e ad un rapporto di forza che ci vede necessariamente subalterni, ci dice tanto sul processo di deprivazione storica e culturale cui siamo stati tanto a lungo sottoposti. Mongili giustamente riconosce che tale discorso identitario non è altro che la manifestazione di una dinamica di dominio e di egemonia esercitata nei nostri confronti almeno a partire dalla Restaurazione (post 1815, diciamo). L’idea stessa della nostra specialità, in quanto italiani, non è altro che il frutto di una visione esterna (i grandi viaggiatori e gli antropologi positivisti del XIX secolo, sempre a caccia di esotico nella “nostra Patagonia”, come diceva G. Bechi), volta a giustificare il ruolo di oggetto storico della Sardegna e dei sardi, visti come un unicum, sia in senso relativo (etnico, potremmo dire, rispetto alle “normali” popolazioni italiche) sia in senso cronologico (un monolite culturale dato per sempre e immutabile). La nostra perdurante folklorizzazione ha avuto un ultimo lampante esempio nell’uso incidentale del sardo in occasione del recente festival della canzone “italiana”, vinto guarda caso da un isolano, finalmente “integrato” e così riscattato dalla sua subalternità tanto speciale (si tratta dello stesso giovanotto di periferia cui accennavo nel mio precedente intervento: che coincidenze sorprendenti, eh?). Se quanto precede è vero (e ci sono molte ragioni per ipotizzarlo), non si può poi difendere il frutto politico più venefico e ammorbante di tale processo esogeno di identificazione collettiva: proprio quel sardismo che, trasferendosi sotto forma di autonomia “regionale” nella sfera istituzionale, non ha fatto che avallare la nostra passività storica.

Ora, mi pare evidente come lo stesso Soru abbia semplicemente tradito le proprie premesse dialettiche e politiche (in cui largo spazio avevano i concetti forti e dirompenti di sovranità, emancipazione economica e culturale, diritti collettivi, assunzione di responsabilità, ecc.) in favore di una più accondiscendente versione, magari eticamente pura, dell’autonomismo classico. Il ripiegamento verso quell’abbozzo mal riuscito di aggregazione partitica che è il PD (in Sardegna più mal riuscito che altrove: asserzione che in questa sede non sarà necessario argomentare più di tanto) ne è un segnale inequivocabile. L’ideale da perseguire diventa non la “rivolta dell’oggetto”, con tutti i suoi addentellati in termini concreti, storici, culturali, ma un “regionalismo forte”. In questo senso, anche appellarsi alla sfera politica europea come ad un interlocutore privilegiato (la Sardegna come “regione” d’Europa tra le altre regioni d’Europa) serve solo a spostare il focus del discorso senza modificarne la sostanza. Ossia che, per Soru e i soriani, così come per il sardismo e l’autonomismo, i sardi sono sì speciali e dotati di mille virtù tutte loro, ma ciò può avere diritto di cittadinanza solo nell’ambito della subordinazione politica, culturale ed economica alla “patria grande” (visto che la Sardegna è una “piccola patria”): l’Italia. Ed è vero: si può essere speciali solo in relazione ad uno standard (in questo caso l’italianità piena e “normale”) da cui in qualche misura ci si discosta, senza metterla in discussione. Meglio “speciali”, “sotto tutela” come il pollo sultano, ma inevitabilmente subalterni, che “normali” e dotati di una soggettività politica pienamente dispiegata. Questo è l’ideale massimo cui conduce tale visione.

Tale equivoco, purtroppo duro a morire, è quello che vela la visione storica di ciò che accade anche in questi giorni. È quello che induce ad attribuire alla sconfitta elettorale di Soru (grave e con conseguenze pratiche problematiche, nel suo ambito specifico di significati) un senso epocale, a definirla un Esecrando Evento, come mai se ne sono verificati nella nostra storia, quando invece si tratta di pura e semplice evenemenzialità, di fenomeni contingenti che non mutano il corso dei processi profondi.

I sardi non esistono come soggetto storico collettivo, sostiene Mongili. Sarà anche vero. Ma allora è questo il problema che dobbiamo risolvere. Perché invece, nella nostra condizione geografica, economica, culturale, e per la nostra vicenda umana millenaria, non possiamo che cercare di (ri-)diventarlo. Dobbiamo innanzi tutto acquisire consapevolezza di noi stessi, contrastare l’abusiva occupazione del nostro immaginario collettivo e della nostra memoria con un immaginario altrui e una storia che risulta sempre più pura ideologia, mera mistificazione, funzionale a logiche di dominio. Adatta a convincere i sardi che la loro esistenza è più meschina, povera e deprivata di qualsiasi altra esistenza possibile “fuori”. Un “fuori” geografico ma soprattutto spirituale. Visone che, alla luce dei dati di esperienza, si rivela del tutto fallace, oltre che quanto mai castrante. Eppure, in buona misura salvata e fatta propria da quel medesimo sardismo (il nazionalismo di una nazione fallita, appunto) che vuole attribuire valore a tale identità posticcia e perdente e farne un’istanza politica egemonica. E che porta ad accettare con rassegnazione l’idea che ci si debba sacrificare per la patria grande (ieri nelle trincee, oggi accogliendo industrie mortifere e poligoni di addestramento e sperimentazione militari, domani ospitando una o più centrali nucleari con la relativa dotazione di scorie radioattive). E che fa rassegnare al diniego di un diritto (per esempio allo smantellamento della servitù militari, o alla restituzione delle imposte dovute per legge alla Sardegna), per la ineludibile sottomissione ad un ordinamento sovraordinato che l’istituto autonomistico non fa che legittimare.

Una visione diversa e alternativa non solo è possibile, ma è anche, a mio avviso, l’unica prospettiva seria di uscita dalla condizione di perenne minorità dei sardi. La ridefinizione di noi stessi in un’ottica di libertà dispiegata, quindi anche di assunzione di responsabilità. Ma a 360°, non con lo sguardo strabico rivolto ad un angolo di cielo. Tale prospettiva culturale – ma anche, se non soprattutto, economica – dovrà per forza di cose iscriversi in un processo politico chiaro, senza ambiguità. In un mondo fatto ancora (e, vista la crisi epocale, ancora a lungo) di ordinamenti giuridici statali, l’unica via possibile è la costruzione di un nostro ordinamento giuridico sovrano. Non in contrapposizione nazionalistica, conflittuale, con l’Italia o con chiunque altro, ma nell’ottica della riappropriazione di una sfera minima di diritti di cittadinanza, di prospettive economiche e culturali finalmente compiute, e, proprio per questo, strutturalmente inconciliabili con l’appartenenza, marginale e subalterna, ad un ordinamento giuridico altro. L’auspicio – assolutamente condivisibile – alla trasformazione dei sardi in una comunità di “teste libere”, presentata però come unica soluzione alla subalternità, senza proporre soluzioni sul piano pragmatico, politico, non può affatto bastare a risolvere il busillis. Rimane un mero artificio retorico senza referente concreto.

Se Soru e i suoi avranno il coraggio di riconoscere tale necessità storica (in senso gramsciano, senza nessun richiamo a un destino già scritto) e trarne le debite conseguenze, allora il loro sforzo, le loro aspirazioni e la loro azione potranno trovare un terreno fertile da seminare. E assumeranno quella valenza storica che troppo facilmente, nonché del tutto ingiustificatamente, si sono già ora attribuiti da sé. In caso contrario, dispiace dirlo, si tratterà della versione corretta e pulita, ma speculare, della congrega affaristica, compradora e para-fascista, strumentale ad interessi esterni, che oggi ha ri-conquistato il potere in Sardegna.

In questa situazione, nella nostra terra del non-senso eretto a sistema, a quanto pare i sardi per ora preferiscono la versione più luccicante e telegenica. Tutto qui.