La necessità storica

Esistono momenti, nella storia umana, in cui si decidono le sorti di intere popolazioni e di intere epoche e sembra che tutto fosse scritto. In realtà, in ogni momento esistono sempre diverse possibilità. Una necessità storica (nel senso di un insieme di fattori reciprocamente collegati che hanno in potenza alcuni sviluppi e non altri) non ha mai un solo sbocco possibile.

Pensiamo agli inizi del XV secolo, del Quattrocento.

L’Europa era prostrata dalla grande crisi trecentesca (crollo economico, peste nera, guerre). Le potenze dell’epoca (Francia, Inghilterra, Catalogna, papato e impero) erano in una fase di debolezza. Le prime due si stavano sfiancando nella lunga guerra detta dei Cent’anni. La Catalogna, grande potenza in espansione, si era schiantata, con enorme dispendio di risorse e uomini, contro la resistenza dei sardi giudicali, perdendo anche l’ultimo erede catalano alla corona aragonese (Martino il Giovane, 1409), con conseguenze tragiche sul proprio futuro. Il papato, mai ripresosi dalla Cattività avignonese (1305-77), indebolito da scismi e beghe assortite, possedeva ormai ben poca autorità politica e ancor meno  autorevolezza morale. L’impero germanico era al minimo storico della sua configurazione medievale. Anche l’impero bizantino era ormai ridotto alla città di Costantinopoli o poco più e di lì a poco sarebbe stato definitivamente sconfitto dagli Ottomani. Il resto era un coacervo di regni, signorie, potentati locali di limitato spessore politico internazionale. Una fase di crisi profonda, dunque, da cui sarebbe emersa l’Europa del Rinascimento, quella delle conquiste geografiche, della grande civiltà moderna.

Eppure, come osservava Braudel, sarebbe forse bastato che verso il 1419 qualche giunca cinese doppiasse da est a ovest il Capo di Buona Speranza e aprisse la via dell’Occidente alla superpotenza orientale, perché magari il mondo prendesse una direzione tutta diversa. La Cina allora era incomparabilmente la terra più florida dal punto di vista economico, culturale e persino mlitare (bisogna ricordarlo, vista la perdurante sindrome eurocentrica che ci affligge).

Ma più in piccolo (e qui vengo a noi), immaginiamo cosa sarebbe accaduto se nel  giugno 1409 i catalani non avessero vinto la battaglia di Sanluri contro l’esercito arborense. Probabilmente Martino il Giovane sarebbe morto comunque nemmeno un mese dopo (la malaria non guardava in faccia nessuno, vinto o vincitore che fosse). Difficilmente i catalani sarebbero riusciti a riprendere l’iniziativa bellica (nemmeno dopo la tremenda carneficina di Sanluri riuscirono a conquistare Oristano, che alla fine aprì spontaneamente le sue porte, per il tradimento interessato del podestà Leonardo Cubello, nel 1410). Chissà quali dinamiche si sarebbero innescate alla corte giudicale. I sardi avrebbero avuto una chance decisamente più consistente di rimanere indipendenti. E da lì, chissà… Ma qui siamo ai se e ai ma, ossia nel territorio dell’ucronia, non della storia. Dobbiamo abbandonarlo, sia pure a malincuore.

Insomma, vista con lo sguardo panoramico della Grande Storia oppure con l’occhio delle vicende circoscritte a una singola area geografica (le quali, però, concorrono sempre, in varia misura, all’affresco di quella stessa Grande Storia che di solito, nella sua veste narrativa, la storiografia, tende a tralasciarle), quell’epoca dà l’idea di essere stata cruciale per il mondo intero, ma tale impressione non può certo rafforzare la convinzione che le cose dovessero andare così e non altrimenti.

Plausibilmente è così per ogni epoca. Quando la pressione dei fattori di costrizione (come li chiamano i demografi storici), degli interessi confliggenti dei gruppi umani e del caso si sommano e raggiungono una massa critica, ecco che la necessità storica prodotta da tale pressione trova uno sfogo, che a posteriori appare come l’unico inevitabile (e sembra autorizzarci a parlare di mani invisibili, di spirito del tempo o di altre fanfaluche idealiste, storiciste, antropocentriche e via elencando: tutte devianze patologiche del pensiero e della percezione di noi stessi nell’universo).

Oggi che ci pare di essere in uno di quei momenti di grande pressione, non siamo però in grado di prevedere quale sarà l’esito di tale crisi. Perché crisi significa essere in bilico tra almeno due possibilità. E non sembra che ci sia provvidenza o destino che abbia già stabilito come andranno le cose. Ce ne dovremo assumere la responsabilità verso chi ci seguirà, temo. Pensiamoci, quando compiamo le nostre scelte, da quelle politiche a quelle quotidiane della nostra vita individuale.