La presente “crisi dei rifiuti”, presentata come emergenza ma a tutti gli effetti conseguenza strutturale del modello di consumo contemporaneo, ha sollevato per l’ennesima volta la questione sempre latente dei rapporti tra Sardegna e Italia. Grande scontento nell’opinione pubblica sarda circa la disponibilità espressa dalle istituzioni regionali ad accogliere i rifiuti campani, scontento preso a pretesto da una parte politica (quella all’opposizione) per mettere in difficoltà la giunta regionale.
Ricordiamo, per inciso, che coloro che si presentano come strenui difensori della salute dei sardi, rifiutando categoricamente di accogliere qualche tonnellata di immondizia napoletana, sono i medesimi che avevano acconsentito a trasformare la Sardegna in sito di stoccaggio di tutte le scorie radioattive italiche e che, per statuto, promuovono la spoliazione sistematica del patrimonio ambientale sardo in nome di interessi privati. Discorso a parte meritano i movimenti indipendentisti, anch’essi schierati contro l’arrivo dei rifiuti campani, ma con argomenti e modalità di protesta decisamente diversi.
Alla fine i rifiuti sono arrivati e sono stati conferiti ai centri di incenerimento o stoccaggio, secondo i piani, e la protesta è rientrata. Rimane la confusione (complici naturalmente i mass-media, il cui ruolo da tempo non è più quello di servizio alla cittadinanza ma di strumento di potere nelle mani di chi li possiede o controlla).
La decisione di prestarsi al soccorso della Campania rientra nell’accettazione del principio dell’”interesse nazionale”, da cui una istituzione come la Regione sarda, retta da uno statuto che è parte integrante della Costituzione repubblicana italiana, non può esimersi. Non può essere in discussione la legittimità della decisione. Caso mai le modalità, poco democratiche si è detto (ed è soprattutto ciò che i partiti di destra contestano alla giunta regionale). Quanto al farsi carico dei problemi altrui, bisogna pur dire che la Sardegna è vaccinata. Terra di frontiera del giovane stato italiano unitario, la nostra isola è sempre stata chiamata in soccorso (volente o nolente) della nuova grande patria comune. C’era da costruire le ferrovie? Ecco il legname sardo. Serviva carne da macello nelle trincee della Grande Guerra? Ecco pronta la brigata Sassari, unico contingente etnico delle forze armate italiane. C’era da sostenere l’economia italica fiaccata dalle sanzini internazionali (ricordiamo le malefatte del regime fascista, l’autarchia, ecc.)? Miniere e campi di grano erano lì a disposizione. E di seguito: servitù militari, campi di addestramento e poligoni di tiro della Nato (all’occorrenza affittati in modo remunerativo, per lo Stato, a cortesi paesi stranieri, non sempre alleati), basi militari segrete (La Maddalena, Tavolara, Capo Marrargiu), comode speculazioni industriali e immobiliari, quasi sempre foraggiate con denaro pubblico, risorse grezze in uscita e merci finite in entrata (si chiama “coloniale” questo tipo di regime economico). E si potrebbe anche scendere nello specifico e ampliare il discorso. Ma non è questo il luogo né il punto. Il punto è che emerge ancora una volta un equivoco che prima o poi sarà necessario risolvere.
La Sardegna ha un rapporto complicato con l’Italia, per ragioni geografiche, storiche, culturali che mi auguro non sia necessario enumerare. Ritenere di averlo risolto, o almeno depotenziato, con la larvata e sempre revocabile forma di autonomia concessa attraverso lo Statuto del 1948 è nel migliore dei casi un’illusione, nel peggiore una furbata maligna. Finché le cose staranno così esisterà sempre un conflitto tra l’interesse nazionale italiano, che sottopone la Sardegna alle proprie necessità in quanto parte dello Stato, e l’interesse, le prospettive, le aspirazioni dei sardi. Risolvere tale equivoco è una necessità storica che chiama in causa la classe dirigente sarda (posto che ce ne sia una), gli intellettuali, chiunque operi in ruoli e in posti di responsabilità economica, civile e politica. Non è questione di razzismo verso i napoletani (come qualche voce autorevole della cultura isolana si è sentito in dovere di argomentare), nè di egoismo campanilista (dal quale, lo sappiamo, noi sardi non siamo esenti specie entro i nostri confini insulari). È il solito corto circuito storico che si ripete senza che arrivi nessun elettricista a risolverlo. Se gli indipendentisti hanno la propria ricetta (che troppo spesso si liquida con sufficienza, senza nemmeno sottoporne a critica le ragioni, anzi, senza nemmeno prenderle in considerazione), il panorama politico e civile sardo non offre alcun’altra risposta credibile e di ampio respiro al problema.
Così continuiamo inerti ad essere un piccolo pianeta in orbita intorno ad una stella lontana, prossima a spegnersi.