Marcello Fois e Sergio Atzeni non hanno bisogno di presentazioni. Il primo è uno dei nomi più conosciuti della letteratura italiana contemporanea, l’altro è l’artefice della definitiva affermazione della forma romanzo in Sardegna. Emersi più o meno in contemporanea, sono spesso accomunati (tra di loro e con altri) in un panorama letterario sardo che si postula come unitario.
Ad un esame superficiale è facile sovrapporre scelte narrative e stilemi dei due autori (uso della lingua sarda, riferimenti identitari, riesumazione di vicende storiche in chiave romanzesca), anche per via di alcuni tratti biografici genericamente simili (in primis, la scelta della lontananza dall’Isola). Salvo verificare, ad una indagine più accurata, una profonda divergenza tanto nel valore letterario quanto nel significato della loro opera.
Sergio Atzeni, piuttosto precocemente, intuì la necessità di cercare un nuovo paradigma per il romanzo sardo (non importa in quale lingua). Ritenendo evidentemente superate le esperienze pregresse (dalla Deledda a Dessì, diciamo), operò un rivolgimento copernicano degli stessi presupposti culturali su cui fondare la propria poetica. Tentò di realizzare, in ambito letterario, la famosa “rivolta dell’oggetto” evocata da M. Pira. La scelta dei temi, dei personaggi e delle ambientazioni, in fondo, non aveva nulla di clamorosamente nuovo. Ciò che dà ai testi di Atzeni il loro sapore inconfondibile è un punto di vista radicalmente sardo-centrico, ma aperto alla condivisione con l’intera umanità. Non la Sardegna così come la vedono o si aspettano di vederla gli Altri, dunque, bensì la Sardegna raccontata per come era ed è, con tutte le contraddizioni e le oscillazioni del caso, con lo sguardo di chi ci è dentro o se la porta dentro senza nostalgie o illusioni, ma senza emettere sentenze.
Tale tentativo rimane in ogni caso intrinseco al discorso, lo compenetra, senza mai diventare la didascalica dimostrazione di una tesi. Il che naturalmente dipende certo dalla padronanza del mezzo “romanzo”, ma anche da una forma di sincerità, di spontanea adesione al proprio essere che non ha nulla di provinciale o di rivendicativo né si riduce ad una semplice posa. Atzeni sublima la propria appartenenza nell’efficacia letteraria anche laddove temi, personaggi e linguaggio scelti sembrerebbero i meno universali che si potrebbe immaginare (Passavamo sulla terra leggeri, Bellas mariposas). Ma è soprattutto la componente partecipativa, la generosità di spendere il proprio talento non solo per ottenere il compiacimento della propria vanità ma anche per farne godere agli altri, che segna indelebilmente la poetica di Atzeni e la fa vivere a distanza di tempo. Senza tale dono del proprio talento ogni sforzo, per quanto grande e serio, può dare forse un risultato tecnicamente apprezzabile, ma difficilmente un risultato artisticamente bello.
Marcello Fois, nel panorama italiano ed europeo, sopravanza di gran lunga per fama e diffusione Atzeni. Ne ha più volte preso le distanze, specie quanto a scelta identitaria di fondo (a prescindere dal risultato letterario). Fois è un buon tecnico della scrittura. Sa come allestire qualcosa di appetibile dal punto di vista editoriale, sa come strizzare l’occhio ad un pubblico esigente ed alla critica specializzata. I suoi testi, ad una prima lettura, sono brillanti e in qualche caso affascinanti. La scelta di trattare pressoché esclusivamente temi e situazioni sarde, con tanto di ricorso alla limba, lungi dall’averlo penalizzato, ne ha fatto un autore originale, in un ambiente in cui sarebbe stato facile restare confuso nello stuolo di scrittori noir contemporanei. Ambientazioni e stilemi dunque, nonostante le riserve espresse sulla questione, lo accomunano ad Atzeni.
Tuttavia, l’esito quasi generalizzato cui arriva un lettore sardo dopo aver affrontato un testo di Fois è la perplessità, un certo senso di disturbo (vedi per esempio i testi dedicati alla Nuoro contemporanea: Nulla, e la trilogia Ferro recente, Meglio morti, Dura madre). Perché? La visuale scelta da Fois tende a ricalcare stereotipi sulla Sardegna cari ai non sardi. Non solo questo traspare dagli scritti di Fois, ma è anche decisamente da lui medesimo rivendicato come unico legittimo e serio criterio di validità di un testo letterario sardo. Parlare di cose sarde, ma senza fare un feticcio della sardità: questo sarebbe l’intento. Nell’insieme, alla fine, il conflitto tra pulsioni confliggenti in Fois non si ricompone in un esito artisticamente significativo. La padronanza dello strumento letterario rimane in primo piano, a danno dell’efficacia. È evidente lo scetticismo di partenza con cui Fois tratta i temi e i personaggi scelti. Si intuisce che l’interlocutore non è né il lettore sardo, né un potenziale lettore di qualsiasi parte del mondo, bensì solo l’establishment letterario italico.
Linguaggio, ambientazioni, connotazioni della scrittura di Fois rimandano chiaramente a tale orientamento. Inoltre, non appare alcuna partecipazione interiore all’oggetto del testo, ma solo un rapporto strumentale, utilitaristico, finalizzato all’autoaffermazione. Nessun dono di sé, ma solo ricerca del buon esito stilistico. Tale conclusione risulta avvalorata dagli interventi di Fois nel dibattito culturale contemporaneo, vuoi relativi a questioni letterarie, vuoi a temi di più ampio respiro (la questione linguistica sarda, l’attualità sociale e politica, ecc.: ultimo esempio in ordine di tempo, il commento sui recenti fatti di Orgosolo apparso sulla stampa).
Quel che ne emerge è l’immagine standardizzata di una terra e di un popolo brutali e invincibilmente esotici, sottosviluppati e lontani dal corso della Storia. Una Sardegna condannata ad essere perenne oggetto storico e narrativo, mai soggetto autosufficiente, produttore e non ricettore di senso. Una visione ingenerosa e alquanto infondata, ma funzionale alla conservazione della Sardegna in un duraturo stato di minorità.
In questo senso, l’esatto opposto del tentativo di Atzeni. Qualcosa di radicalmente estraneo alle dinamiche e ai processi profondi che scuotono e animano la Sardegna almeno da quarant’anni e che oggi, sia pure a fatica, finalmente cominciano a emergere.