(Articolo pubblicato sul numero 18 di “Sardegna Mediterranea”, ottobre 2005)
1. Premessa
Le cesure storiche identificate con una data o un avvenimento, tipiche della storiografia, sono sempre frutto di scelte convenzionali e fondamentalmente arbitrarie, anche quando siano condivise dalla comunità degli storici, o dalla maggior parte di essa. Sono quasi sempre stabilite a posteriori, non dai protagonisti di quelle medesime vicende, ma da chi ne valuta le conseguenze a distanza di tempo. Non hanno perciò necessariamente di per sé un significativo riscontro storico nella realtà cui si riferiscono. Quando venne inventata la stampa a caratteri mobili, ben pochi in Europa furono coloro che attribuirono all’avvenimento un particolare significato. Allo stesso modo, la fine dell’impero romano d’Occidente, con la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre nel 476 d.C., fu un fatto assolutamente secondario in quegli anni convulsi. Due eventi diversi considerati epocali dai posteri — che hanno avuto l’agio di discernerne le cause e valutarne le conseguenze — non furono altrettanto significativi per i contemporanei. Gli esempi di questo genere sarebbero innumerevoli e possiamo astenercene.
Nondimeno, pragmaticamente, possiamo ammettere che le schematizzazioni storiografiche sintetizzano e definiscono i vari momenti del processo storico, ai quali, nascendo essi da una molteplicità spesso inestricabile di cause, non sarebbe altrimenti facile attribuire un senso intellegibile. Almeno a scopo mnemonico e didattico, può dunque essere utile segnalare con una certa nettezza i passaggi da un’epoca ad un’altra, legandoli a una data, o a un nome, a patto di chiarire preventivamente la natura e le ragioni di tali scelte.
Detto questo, possiamo spostare il discorso su un altro piano. Così come si scelgono date fondamentali all’interno del processo storico generale dell’umanità, o di una sua ampia porzione, allo stesso modo anche le comunità più piccole e marginali possono memorizzare il loro peculiare divenire scandendolo tramite proprie date di riferimento, non necessariamente coincidenti con quelle della “Grande Storia”. Anche queste date saranno scelte in modo convenzionale, come strumento di evocazione del patrimonio mnemonico collettivo.
Per quel che riguarda la Sardegna, la questione da risolvere è se essa abbia o no un sistema di datazione storica particolare, di riferimenti diacronici specifici lungo la linea del tempo. E, in caso di risposta affermativa, di che natura esso sia. E ancora se sia condiviso da una memoria comune. In altre parole, la domanda generale e fondamentale cui si deve rispondere è se si possa parlare legittimamente di una vera e propria “storia di Sardegna”.
Prima di entrare nel merito dell’argomento, proviamo a tratteggiare lo stato delle cose. Benché non più luogo d’espiazione o d’esilio e già da anni appetita meta turistica, la Sardegna è ancora oggi diffusamente considerata una terra marginale del Mediterraneo europeo; poco popolosa, perciò statisticamente irrilevante, ricca di risorse ma non particolarmente fiorente, gravata da antichi retaggi culturali forse affascinanti ma tutto sommato anacronistici. E, soprattutto, da sempre condannata a rimanere lontana dagli eventi significativi, quindi, a conti fatti, storicamente poco interessante. Coerentemente con tale valutazione complessiva, il corso delle vicende storiche che riguardano l’Isola viene usualmente ripartito in periodi delimitati dall’imporsi delle diverse dominazioni straniere. Per esempio, si parla comunemente di “Sardegna punica” o di “Sardegna romana”, benché in genere si tratti invece della storia dei Cartaginesi o dei Romani in Sardegna. In altre parole, non sono tanto le vicende dei sardi ad esser prese in considerazione, bensì principalmente quelle di una o l’altra tra le civiltà con cui essi hanno avuto a che fare nel corso degli ultimi tre millenni. Tale deformazione storiografica è giunta al punto che, persino laddove con lo stesso criterio potrebbero riconoscersi un’espressione di civiltà autoctona o eventi di significato generale, si preferisce comunque denotare la prima con riferimento a dominazioni straniere e sminuire la rilevanza dei secondi. È questa una prassi talmente consolidata che ad essa indulgono acriticamente gli stessi storici sardi. Un esempio tipico è quello fornito dai capitoli o dagli interi volumi dedicati alla “Sardegna pisana e genovese”. Solitamente i testi così intitolati si riferiscono alle vicende isolane susseguitesi tra il tentativo di invasione musulmana del principe di Denia e delle Baleari Mujahid, nel 1014-16, e l’inizio del dominio aragonese, che per gran parte dell’isola significa dal 1410 o dal 1420 in poi (ma che i testi in questione fanno cominciare per l’intera isola, acriticamente, col 1323). Ciò che forse non tutti sanno, è che una Sardegna “genovese” non è propriamente mai esistita e quella “pisana” coincise, e solo per qualche decennio (dalla seconda metà del XIII secolo al 1324), con porzioni dell’isola. Più o meno quattro secoli di storia, dunque, liquidati con un’indicazione erronea e fuorviante.
Il discorso può ampliarsi. Inanzi tutto è inevitabile assumere che anche nelle epoche punica, romana, bizantina, ecc. della storia sarda, al di là degli avvenimenti attribuibili alle entità politiche dominanti, si siano svolti altri e concomitanti fenomeni — culturali, economici e anche politici — di cui fu protagonista la popolazione autoctona, assoggettata o meno che fosse. Di tutto ciò sappiamo poco, ovvero abbiamo indizi, ma scarse o inesistenti prove documentali. Ciò è conseguenza del fatto che il resoconto degli avvenimenti riguardanti la Sardegna, così come noi lo conosciamo, è per lo più frutto di operazioni di filtro e censura operati di volta in volta da chi gestiva il potere nelle varie epoche, cioè, quasi sempre, da non sardi. Inoltre, bisogna considerare in tutta la sua portata la circostanza che una mole di certo non piccola di documenti (specie di epoca giudicale) è sparita senza lasciare traccia dal XV secolo in poi, tanto che, non a caso, nell’Ottocento si avvertì la necessità di colmare la lacuna con degli ingegnosi falsi: le “Carte di Arborea”. In secondo luogo, ma non per importanza, emerge chiaramente come la manualistica relativa alla Sardegna si occupi prevalentemente del livello evenemenziale della storia, con ciò tralasciando a cuor leggero altri aspetti di non trascurabile rilevanza. In generale non si mette ancora apertamente in discussione il metodo di ricerca basato esclusivamente sull’erudizione documentaria, né la tradizione storiografica, tipica dell’accademia italiana, di matrice retorica e tendenzialmente a-scientifica, ostile ad un’euristica multidisciplinare. Solo di recente cominciano ad essere presi in considerazione strumenti di analisi diversi. Il quadro delle fonti e dei temi a disposizione dello storico negli ultimi anni si è, in potenza, notevolmente arricchito, eppure le novità, quand’anche vi siano, stentano ad imporsi esplicitamente nella didattica e nei testi destinati alla divulgazione storica, tanto in quelli specificamente dedicati all’Isola, quanto — a maggior ragione — in quelli di argomento più ampio.
Nondimeno, la complessità delle questioni storiche relative alla Sardegna risulta ormai ben maggiore rispetto al passato e, per intere epoche, è evidente la necessità di ridisegnarne la mappa e ristabilirne i nodi salienti. Le continuità e le discontinuità evidenziate dalle nuove prospettive di ricerca non ricalcano più quelle scolastiche apprese e applicate pedissequamente nell’ultimo secolo e mezzo di produzione storiografica, ma non esiste ancora, per cause che bisognerebbe a loro volta indagare, un’alternativa valida e condivisa. Se dunque si intende parlare compiutamente di una “storia di Sardegna”, il nuovo sforzo critico dovrebbe essere rivolto a rivedere l’intero processo storico relativo all’Isola, allo scopo di attribuire ad esso quel senso che non si ritrova più nella tradizionale narrazione del nostro passato.
Una nuova narrazione, quindi, i cui contenuti possibilmente non siano più solo di natura esogena, eteronoma e strettamente evenemenziale.
2. Proposta per una nuova scansione diacronica
Da quanto premesso consegue la necessità di rivedere la stessa periodizzazione generale delle vicende sarde. A mo’ di avvio del dibattito avanzo qui di seguito la proposta di una possibile nuova scansione diacronica. A partire dal IX-VIII secolo a. C., distinguerei quattro epoche fondamentali, individuabili attraverso l’analisi dei mutamenti di lunga durata nei processi economici, culturali e istituzionali, nonché dei rapporti degli abitanti dell’isola con l’esterno.
2.1. L’antichità. Riguardo alla storia più antica, si può descrivere alquanto unitariamente un lungo periodo di tempo che va dalla colonizzazione fenicia sino all’epoca bizantina. Sembra infatti che tra le comunità umane dell’isola in quest’arco di tempo vi sia stata una notevole continuità di modelli culturali, produttivi e politico-istituzionali. Soprattutto a partire dall’urbanizzazione punica (V secolo) si afferma un tipo di convivenza di natura dialettica, a volte pacifico a volte conflittuale, tra popolazioni delle zone costiere e agricole, la cui classe dominante era legata da rapporti di clientela con la potenza egemone, e quelle dell’interno, custodi dell’eredità culturale delle epoche passate. Si tratta di fenomeni che, mutatis mutandis, sopravviveranno si può dire fino ai giorni nostri. Per esemplificare il grado di continuità di questo lungo periodo mi rifaccio alle attestazioni archeologiche sulla base delle quali si può ipotizzare che la prassi cultuale di larghe fasce della popolazione sia proseguita senza sostanziali mutamenti dall’VIII secolo a.C. sino almeno al VII secolo d.C. Tale continuità non viene dunque interrotta dalla precaria dominazione vandalica (455-535 ca.). La sconfitta vandala e l’arrivo dei funzionari imperiali bizantini non faranno che rivedere le forme esteriori di un legame mai venuto meno col resto del mondo mediterraneo. A ulteriore conferma di tale generale tendenza conservativa basterà ricordare l’esistenza, negli anni tra i secoli VI e VII d.C., di un’autorità politica riconosciuta tra le popolazioni dell’interno, ossia il dux delle civitates Barbariae Ospitone, cui si rivolgeva amichevolmente lo stesso papa Gregorio Magno. Le notizie relative ad Ospitone e alle sue genti segnalano un processo di unificazione politica delle comunità interne dell’isola, anche in questo caso nell’ambito di una notevole continuità culturale con i secoli passati. In definitiva, più che affidarsi alle distinzioni consuete tra Sardegna “punica”, “romana”, “vandala” e “bizantina”, sarebbe forse più rispondente ai fenomeni effettivamente documentabili identificare i secoli in questione come un’unica lunga epoca, sia pure con i suoi naturali processi interni. La tipica resistenzialità culturale dei sardi funzionò già allora — come poi accadrà anche nei secoli successivi — da contrappeso ai fenomeni mutageni, per lo più generati da forze esterne. Una vera discontinuità sarà prodotta di fatto, tra VIII e IX secolo d.C., dall’espansione araba nel Mediterraneo, fenomeno che taglierà fuori l’isola dai contatti e dai traffici con le altre terre romanizzate. Da questo iato, accentuato ai nostri occhi dalla scarsità di notizie, scaturirà una nuova epoca, riconoscibile e alquanto ben connotata: quella giudicale.
2.2. L’epoca giudicale. Se si astrae dalle analisi spesso superficiali e anacronistiche dei decenni trascorsi, non è più lecito sottovalutare la portata storica complessiva della civiltà giudicale. Tra VIII e X secolo la Sardegna, di fatto abbandonata a se stessa dall’Impero bizantino, deve difendersi da sola. I pericoli sono innumerevoli, dall’espansione longobarda a quella araba. A quanto pare, in modi che solo un’accurata ricognizione delle fonti e una contemporanea e contestuale ricerca archeologica potranno rivelare, l’Isola riesce a rimanere immune da forme di sottomissione durature. L’alba dell’anno Mille la trova suddivisa nei quattro regni giudicali, le cui caratteristiche istituzionali sono a quell’epoca ormai piuttosto definite. Benché gli sviluppi storici conducano prima uno poi l’altro dei Giudicati nell’orbita delle potenze egemoni nel Mediterraneo occidentale, è individuabile il dipanarsi di un processo che, pur con tutte le influenze e i conflitti del caso, durerà almeno sino al XV secolo. L’indubbia originalità delle soluzioni istituzionali e amministrative degli ordinamenti giudicali ancora oggi trova riscontro molto più nei testi specialistici di storia del diritto che in quelli di storia tout court. Lo stesso rapporto del Comune Pisano con la Sardegna, preponderante per tre secoli, appare ormai sotto un’altra prospettiva. Si sfuma la visione consolidata di una potenza conquistatrice di fronte ad una terra da sottoporre al proprio dominio ed emerge la natura dialettica dei rapporti tra la repubblica marinara toscana e i regni giudicali. Da mettere nella giusta luce sono poi le istanze di tipo comunale sviluppatesi in Sardegna nel corso di questa stessa epoca, tra XIII e XIV secolo, anch’esse misconosciute. Infine, la vicenda pluridecennale del conflitto che divise il superstite e potente regno giudicale di Arborea dalla corona aragonese titolare del regno di Sardegna — vicenda di solito semplificata fino all’inconsistenza e appiattita sulla figura quasi mitologica di Eleonora d’Arborea — andrebbe ricostruita con maggiore aderenza ai vari passaggi istituzionali, politici e culturali, e riconsiderata in tutta la sua rilevanza.
2.3. Il Regno di Sardegna. Circa l’evo moderno, pare evidente la significatività del passaggio dall’epoca giudicale a quella feudale. I decenni tra il 1420 e il 1480 sono quelli in cui per i sardi si avvia un mutamento culturale piuttosto profondo. Alla dipendenza da un potere estraneo, lontano e per lo più ostile, si aggiungono condizioni di vita generalmente peggiori rispetto al passato. Non è fondato ritenere che presso la popolazione non esistesse alcuna consapevolezza di tale cambiamento. Lo dimostra il fatto che alla prima occasione, ossia quando Leonardo di Alagon prese le armi contro il viceré per difendere i propri interessi patrimoniali, la sola adozione da parte sua delle insegne arborensi bastò a sollevare una rivolta antiiberica generalizzata. Erano passati cinquant’anni dalla fine definitiva dell’ultimo regno giudicale. Dal punto di vista socio-economico, la rivoluzione nei rapporti di produzione dovuta all’imporsi del modello feudale aveva costituito una prepotente rottura col passato. Rottura mal accolta dai più e causa diretta di nuovi fenomeni di resistenza endemica, sia pure, per quanto ne sappiamo, senza chiari scopi politici. In ogni caso, ancora a distanza di secoli, nel 1794, il notaio Francesco Ignazio Mannu poteva accusare il potere baronale di fondarsi sull’usurpazione delle antiche potestà delle villae. Della lunga dominazione prima catalana poi spagnola del regno di Sardegna rimangono abbondanti tracce ancor oggi, nella lingua come nei costumi. Alcuni dei tratti culturali che i sardi sbandierano come propriamente autoctoni nascono allora, sulla base della pressione culturale e religiosa iberica. Il trasferimento della corona del regno dai re di Spagna ai Savoia, evento solitamente sottolineato come una cesura storica significativa, non comporterà un mutamento sostanziale da alcun punto di vista, almeno fino alla fine del secolo XVIII. La stagione rivoluzionaria degli anni 1793-96, in cui si manifestò un notevole risveglio della coscienza collettiva sarda, avrà esiti politici fallimentari. Saranno più tardi l’abolizione del feudalesimo, l’imposizione della proprietà piena delle terre e poi l’Unione Perfetta con gli stati continentali a produrre nel secolo successivo un’ulteriore svolta storica.
2.4. La Sardegna contemporanea. Nei decenni a cavallo della metà del XIX secolo la Sardegna perderà ogni residua autonomia giuridica e subirà un ulteriore drastico ridimensionamento culturale ed economico. Inizierà dunque quella che può ben essere definita con F.C. Casula la storia “regionale” dell’Isola, con la definitiva sanzione, nel 1861, del mutamento di denominazione dello stato da regno “di Sardegna” a regno “d’Italia”. Ma un fatto istituzionale, pur significativo, non basterebbe a segnare un passaggio epocale, se non si accompagnasse al radicale rovesciamento di valori che in quel lasso di tempo catapulterà la maggioranza dei sardi da una cultura e un modello economico tipicamente ciclici, pre-capitalistici, nel bel mezzo del mondo contemporaneo, per di più nello scomodo ruolo di provincia marginale, sottoposta ad un sistema economico di tipo coloniale. Di qui l’aggravarsi dei fenomeni di resistenza, più o meno consapevole, tipici di tutto il XIX secolo e sfumati lentamente (ma mai sopiti del tutto) nel corso del XX. Tale ultima fase, attraverso varie tappe, arriva dunque sino ai giorni nostri.
3. Temi e fonti di una nuova storiografia
In via preliminare, nella ricerca dei contorni di una possibile storia di Sardegna, considero fondamentale, per aspirare ad una visione obiettiva, non condizionata da anacronismi, l’abbandono dell’impostazione italocentrica, presente — sia pure in misura variabile, ma sempre maggioritaria — in tutta la storiografia sarda. Essa è a conti fatti una zavorra pericolosamente fuorviante, del tutto inutile per chi debba affrontare lo studio di epoche in cui i rapporti economici e culturali tra la Sardegna e la penisola italica erano molto meno stretti di quanto siano stati da centocinquant’anni a oggi. D’altra parte, nella manualistica storica italiana difficilmente si trovano notizie relative alla Sardegna. Non è solo la tipica noncuranza verso le zone ritenute marginali, ma il sintomo di una diversità non riducibile a schematizzazioni aliene, ormai consolidate. Diversità che dunque si tende semplicemente a rimuovere.
Quanto alla storiografia relativa alla Sardegna, molti sono i temi su cui essa non si è ancora soffermata sistematicamente, privando così il quadro generale di indispensabili punti di riferimento. Elenco di seguito in ordine sparso alcuni ambiti a cui potrebbe attingere con maggior profitto la critica storica: linguistica, cultura materiale, immaginario collettivo; istituzioni, ordinamenti giuridici; economia; letteratura, musica. Si tratta di campi di ricerca non del tutto vergini, ma ancora poco battuti dalla storiografia accademica e, soprattutto, diffusamente ignorati dalla manualistica didattica. Anche nel caso si sia prodotto qualche raro risultato in questo o in quell’ambito, nessuno storico si è ancora posto l’obiettivo di prenderli compiutamente in considerazione ovvero raccoglierli insieme e trarne un quadro complessivo.
Naturalmente non intendo affatto negare, con queste righe, la rilevanza delle fonti documentarie tradizionali, preziose e difficilmente sostituibili, la cui ricerca dovrebbe anzi proseguire senza posa. Piuttosto mi pare necessaria una rilettura critica di quelle già note e pubblicate, anche alla luce di testimonianze di indole e origine diversa, di nuove ipotesi e, non da ultimo, del prezioso retaggio culturale che il lento e a suo modo anacronistico processo storico sardo ci ha consegnato dai secoli passati.
4. Conclusioni
La necessità di una revisione generale della storiografia relativa alla Sardegna appare ormai in tutta la sua urgenza. Non servirebbero a niente gli strumenti legislativi di tutela e valorizzazione della cultura, della lingua e delle tradizioni sarde senza un valido inquadramento storico di ciò che si vorrebbe valorizzare. Dirò di più: è indispensabile dare basi solide alla nostra stessa memoria collettiva, slegandola da luoghi comuni provinciali e dalla mitologia spicciola da cui dipende in buona misura l’immagine che i sardi hanno di se stessi. La conoscenza della propria storia, come base di un processo di autocoscienza destinato ad aprire il confronto paritetico con l’altro da sé, è uno dei grandi moltiplicatori di libertà che gli esseri umani hanno a disposizione. Questo, pur con tutti i suoi limiti, vuol essere un piccolissimo contributo in tal senso.
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