L’epoca delle crisi e il destino della Sardegna

Il mondo si sta avviando verso un’epoca di conflitto generalizzato, in cui si impongono i peggiori istinti della nostra specie. La Vecchia Europa, orgogliosa e ottusa, rischia seriamente di subire una sorte catastrofica, in tale scenario. La nostra cara isola, colonia oltremarina dello stato italiano, arriva totalmente impreparata e priva di risorse a quest’appuntamento storico.

Per capire il guaio in cui ci troviamo occorre esaminare due fattori decisivi: lo scenario internazionale e la qualità della politica sarda. Non sono gli unici elementi che entrano in gioco, naturalmente, ma hanno una rilevanza indubitabile.

Dello scenario internazionale e europeo in particolare ho già scritto qualcosa. In sintesi, mi pare evidente che siamo già qualche passo dentro un periodo di conflitti su piccola, media e vasta scala e una deriva reazionaria generalizzata.

Quest’ultima è animata in Europa da due posizioni principali:

– quella apertamente oscurantista e nazionalista, spalleggiata (e finanziata) dal regime putiniano, che dunque ne riceve a sua volta sostegno e spazio per la propria propaganda; una posizione vicina alle narrative e agli obiettivi di Trump e soci, ammiccante verso tutti i governi o le forze politiche di destra del mondo, ostile verso qualsiasi forma di tutela delle diversità e delle minoranze, ossessionata da miti suprematisti e da pulsioni autoritarie; in poche parole, un nuovo fascismo globale;

– quella elitaria, oligarchica, anti-popolare, affarista, liberale per quanto riguarda i movimenti dei capitali e le possibilità di saccheggio e sfruttamento, a tratti per ciò che riguarda alcuni diritti di cittadinanza, ma pervicacemente nemica di ogni possibile alternativa politica e socio-culturale di stampo democratico, confederale, socialista, ambientalista.

Vale a poco rispondere che per decenni abbiamo subito le interferenze e l’egemonia politico-militare targata USA, quindi è giusto contrastarla con tutti i mezzi. È un discorso inaccettabile.

Nell’attuale scenario europeo diverse propagande, forti e con aspirazioni egemoniche, solo apparentemente contrapposte, giocano sulla paura diffusa e sulle divisioni sociali e culturali artatamente alimentate per contendersi la supremazia.

I mezzi a disposizione sono cospicui e vanno dalla disinformazione classica alle tecniche di controllo basate sul doppio legame e altre forme di manipolazione collettiva. Durante la pandemia di covid-19 ne abbiamo avuto alcune dimostrazioni fattuali, specie in Italia.

Lo stesso dibattito europeo sul riarmo è una messa in scena in cui queste due anime si scontrano solo retoricamente, assumendo pose diverse che però conducono sempre a un restringimento dei presidi democratici, a uno svuotamento dei diritti di cittadinanza, a un’esclusione delle popolazioni europee da qualsiasi forma di controllo diffuso sul potere.

Il resto del mondo, fuori dall’Europa, non è che vada molto meglio. Il conflitto tra India e Pakistan è solo l’ennesimo episodio di una tendenza al suicidio collettivo della nostra specie.

Certo, le varie élite dominanti contano di salvare se stesse e di mantenere in piedi un sistema che ne garantisca lo status e la riproduzione. Ma sappiamo bene – dovremo sapere – che questo genere di calcoli ha sempre prodotto disastri, stragi e devastazioni su larga scala.

In questo momento storico, non abbiamo più grandi spazi di manovra. Il pianeta è in sofferenza, siamo troppi e la resilienza dell’ecosistema è messa a durissima prova.

Non possiamo contare su saldi principi di riferimento teorico e morale di stampo laico, aperto, lungimirante, condivisi dalle classi dirigenti e da una parte significativa delle popolazioni umane. È sempre meno contemplata l’accettazione della diversità. È guardato con sospetto o con ostilità il diritto all’autodeterminazione delle persone, dei gruppi sociali e delle diverse comunità umane. Sempre più legittimato il ricorso alla guerra e alla sopraffazione violenta.

La debolezza della politica, nelle democrazie di tipo europeo, prodotta da anni di lavorio profondo delle classi dominanti, comincia a presentare il conto.

Siamo travolti da scelte che non abbiamo né vagliato accuratamente né tanto meno assunto consapevolmente, ma non sappiamo nemmeno bene con chi prendercela. In questo stato confusionale generalizzato -non casuale beninteso – agiscono la disinformazione e la manipolazione di massa.

La maggioranza delle persone pensa di sapere cosa stia succedendo o è propensa a credere alle spiegazioni che le vengono fornite, specie se facili da capire e da ripetere meccanicamente. Per il resto, basta anche poco a distrarci: un po’ di consumismo, qualche diversivo, infotainment e gossip a volontà.

È la situazione ideale per un disastro epocale.

In questo scenario, come se la cava la Sardegna?

Più che dilungarmi in una disamina articolata e argomentata, credo che basti fornire pochi esempi di cosa sia la politica sarda oggi, per dare un’idea sufficientemente compiuta.

Il primo è la celebrazione in Consiglio regionale di Sa Die de sa Sardigna, il 28 aprile scorso. Una circostanza dai tratti surreali e per molti versi talmente cialtronesca da essere assurda. Non ne ho scritto prima, perché ho faticato a superare il puro e semplice sdegno.

Non servono tante parole, basta guardare il video completo della seduta. Dal discorso del presidente del consiglio Piero Comandini, all’intervento alquanto incongruo del comico Alessandro Pili (presentato come “studioso”), all’esecuzione dell’inno “di Mameli” e del Va Pensiero verdiano passando per l’Inno alla gioia beethoveniano (inno dell’UE), fino all’orazione della presidente Todde, è un susseguirsi di gaffe, non sequitur, parole sconclusionate, mistificazioni storiche e/o politiche.

La ricorrenza del 28 aprile da quelle parti è sempre indigesta. L’istinto di conservazione suggerisce al nostro personale politico di temerla e, fin dove possibile, neutralizzarla.

Non possono snobbarla con troppa disinvoltura, come fatto a lungo in passato, perché negli ultimi anni qualcuno (in specie Assemblea Natzionale Sarda) sta facendo in modo di mantenere vivo l’interesse in proposito e alimentare la conoscenza e la partecipazione popolare. Pertanto preferiscono simulare una adesione ideale ed emotiva, che non esiste, ma badando bene di inquinare i significati della giornata.

Se almeno avessimo un ceto medio riflessivo e un ceto intellettuale all’altezza della situazione, avremmo avuto qualche contrappeso a tanta meschinità. Ma non ne disponiamo. L’ambito di studi storici, sempre così attento a fare le pulci al presunto uso politico della storia in termini di riscatto collettivo e di rivendicazioni di autodeterminazione, non ha avuto alcunché da ridire sulle forzature e sulle mistificazioni andate in scena nella massima assemblea politica sarda. Non è la prima volta.

Del resto, sul senso di Sa Die e sul periodo rivoluzionario, nella narrazione storiografica sarda (in quella italiana non ce n’è traccia; in quella internazionale, meno che mai) vanno ancora per la maggiore letture sminuenti e a volte denigratorie, a dispetto dei documenti e delle fonti, nonché di qualsiasi corretta contestualizzazione.

Un altro esempio riguarda una vicenda di questi giorni.

È in corso in Sardegna, come ogni anno, una grande esercitazione militare, la Joint Stars 2025, con conseguenti disagi, sottrazione di territorio e inquinamento. Tutte cose risapute, che però passano alquanto sotto silenzio, con la complicità della politica sarda.

Nell’occasione, il Ministero della Difesa, in collaborazione con alcune aziende produttrici di armamenti, compresa la RWM (quella che ha uno stabilimento a Domusnovas), ha coinvolto alcuni media, le istituzioni, le scuole e la sanità pubblica sarde in un evento propagandistico riverniciato di attività caritatevoli e buoni sentimenti, prevalentemente rivolti all’infanzia, in perfetto stile paternalista/coloniale.

Il fatto, già discutibile in sé, ha assunto connotati ancora più gravi per via del patrocinio dato sia dal Comune di Cagliari sia dalla Regione Sardegna.

Benché i mass media e le stesse istituzioni coinvolte abbiano presentato la cosa in modo favorevole o persino entusiasta, le reazioni indignate si sono presto moltiplicate. Addirittura è stata messa su una raccolta di firme per contestare tale scelta.

Dapprima le istituzioni coinvolte e le forze politiche che le occupano hanno fatto finta di nulla. Poi, col crescere delle contestazioni, hanno cominciato a sminuire la portata della faccenda, salvo infine cominciare a svincolarsi alla spicciolata, con tentativi maldestri e distinguo ipocriti che non fanno che aggravarne la posizione.

Pezzi delle maggioranze che governano sia la città sia la Regione hanno retoricamente preso le distanze della manifestazione, ma non risulta che il patrocinio sia stato tolto.

Inizio del post Facebook con cui Sinistra Futura “prende le distanze” dalla manifestazione, ma senza chiedere di eliminare il patrocinio alla maggioranza di cui fa parte.

L’operazione di per sé, come detto, era già disgustosa. Non rendersene conto ma anzi avallarla e promuoverla è un peccato imperdonabile, che solo l’assuefazione al peggio della cittadinanza sarda lascerà senza conseguenze concrete.

L’episodio esemplifica ancora una volta la subalternità patologica e la mediocrità della nostra politica, a vario livello. Come tale, va tenuto in debito conto e soppesato in tutte le sue implicazioni.

Non posso chiudere questa carrellata di esempi senza citare uno degli ultimi interventi pubblici della presidente della Regione Autonoma Sardegna, Alessandra Todde. Ecco il testo con cui ne ha riferito lei stessa su Facebook:

Questa sera ho partecipato, nella sede della Fondazione di Sardegna a Cagliari, alla presentazione del rapporto “Europa, molto più di un mercato” redatto da Enrico Letta. Un lavoro importante che ci invita a riflettere con lucidità e coraggio sul futuro dell’Unione, sulle sue fragilità, ma anche sulle sue straordinarie possibilità.
Nel mio intervento ho voluto ricordare che la Sardegna è, nel suo piccolo, un’immagine dell’Europa: un’isola con un isolamento strutturale ancora irrisolto, con aree interne che si spopolano e una transizione ecologica che stenta a decollare. La Sardegna è un frattale dell’Europa, una periferia che racchiude altre periferie. Ma è proprio da queste fragilità che può nascere una forza nuova. Riconoscerlo significa costruire risposte più eque e più intelligenti.
In questa fase storica, l’Europa rischia di essere percepita come distante, in affanno, scollegata dai bisogni reali delle persone. Ma non possiamo permetterci che l’Unione imploda sotto il peso dei nazionalismi e della sfiducia. Serve un rilancio politico, non solo economico. E serve una maggiore presenza dei territori nei processi decisionali.
E nel rapporto Letta vengono proposte soluzioni concrete, come la creazione del 28° Stato, uno Stato virtuale che offre opportunità per startup e piccole e medie imprese, grazie a una burocrazia semplificata. Oppure il lavoro sulla cosiddetta “quinta libertà”, la libertà alla conoscenza, che apre la strada a investimenti condivisi nelle tecnologie europee.
Come Regione, stiamo lavorando su tre direttrici: rafforzare la programmazione unitaria, potenziare la macchina amministrativa e sostenere una governance partecipata con gli enti locali.
Ho concluso il mio intervento con un appello, la Sardegna deve essere protagonista nei luoghi dove si decide il futuro dell’Europa. Solo così potremo contribuire davvero alla costruzione di un’Unione che sia molto più di un mercato: un progetto culturale e politico fondato sulla giustizia, sull’uguaglianza e sulla pace.
In questo, il pensiero di Antonio Gramsci ci offre ancora oggi una bussola: combattere l’egemonia, proporre alternative credibili, costruire una nuova narrazione collettiva. È il modo più potente per difendere la libertà e garantire uno sviluppo duraturo e condiviso.
Ringrazio Enrico Letta per il confronto, e con lui Giacomo Spissu, Francesco Pigliaru, Carla Bassu, Maurizio De Pascale e Giuseppe Meloni, per gli spunti offerti.
A pochi giorni dalla Giornata dell’Europa, portiamo avanti l’ambizione di renderla più giusta, più coesa, più vicina ai cittadini. Anche partendo dalla nostra isola.

Che dire? Su tutto, la solita visione auto-colonizzata della Sardegna, fonte di fraintendimenti esiziali. Poi, ancora: confusione dei piani, scarsissima aderenza alla realtà sarda, contraddizioni, la citazione di Antonio Gramsci buttata lì a caso, retorica europeista superficiale e a tratti ambigua, pose da “anti-sistema” del tutto fuori luogo.

Si dirà: va bene, è solo un post su Facebook e si tratta di comunicazione pubblica alla buona, niente di così fondamentale. E tuttavia non è la prima volta che le sue dichiarazioni mi appaiono sconcertanti. Sarei curioso di capire se è tutta farina del suo sacco o se si sta affidando a gente senza arte né parte.

In ogni caso, stiamo parlando della massima carica istituzionale sarda, per altro coinvolta in partite complesse (come i vari contenziosi con il Governo) e a tratti opache (come quella della sua possibile decadenza dalla carica).

È disarmante la bassa qualità espressa da lei e dall’intera politica sarda in questo momento storico. Gli episodi qui elencati non sono altro che amare conferme. Se commisuriamo tale bassa qualità al contesto generale in cui siamo coinvolti è spontaneo concluderne che siamo davvero nei guai.

Per provare a uscirne sono indispensabili almeno un paio di cose. Una è lavorare a un allargamento della rappresentanza politica nelle istituzioni, a livello di Regione (dato che sul livello statale non possiamo minimamente incidere) ed europeo.

La questione è complessa, ma non è eludibile. Da un lato la battaglia per la riforma della legge elettorale regionale in termini più rispettosi del pluralismo politico e delle rappresentanze territoriali. Da un altro, quella per ottenere finalmente un collegio elettorale europeo sardo (distaccandoci dalla Sicilia).

La democrazia non si riduce solo al diritto di voto e di rappresentanza, ma senza di essi non si può parlare di democrazia. In Sardegna ne siamo privati, oltre al fatto di scontare decenni di relazione asimmetrica con tratti coloniali rispetto allo Stato italiano, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Le battaglie di indole giuridico-istituzionale non vanno disgiunte da un risveglio civile diffuso e da nuove modalità di partecipazione attiva della cittadinanza alla cosa pubblica.

Le mobilitazioni contro l’assalto speculativo energetico degli scorsi anni o quelle sulla sanità pubblica sono esempi di come un movimento popolare informato e solido possa crescere e diventare attore nello scenario politico, pur senza alcun appoggio dai partiti che dominano la scena e senza rappresentanza nelle istituzioni.

Quel che conta non sono solo né tanto gli obiettivi specifici (che ne so, l’approvazione della proposta di legge Pratobello24), quanto le modalità di partecipazione messe in campo e il coinvolgimento di larghe fasce di popolazione.

È un patrimonio che non va disperso, bensì rilanciato. Le contrapposizioni personali, i dissensi su aspetti particolari e spesso marginali, i personalismi, i campanilismi e tutte le altre forme di disarticolazione tipiche di questo genere di movimenti vanno minimizzate.

Certo, la mancanza di forze politiche organizzate e radicate a sostegno delle battaglie civiche in corso si fa sentire. Ma è anche vero che non siamo più nel secondo dopoguerra e bisogna cercare forme di attivismo adeguate alla nostra contemporaneità.

Di sicuro non possiamo perdere tempo in diatribe sciocche o in diversivi. La situazione è molto grave e la debolezza politica della Sardegna, priva di voce, di credito e di forza in tutte le partite strategiche che la riguardano, in questa fase storica è più pericolosa che mai.

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