Ruolo dello Stato, tentazioni autoritarie, mobilitazioni democratiche e una possibile rivisitazione del concetto di “forze dell’ordine”

SERRA SANNA: sos senatores, sos gigantes

Il 12 maggio scorso la sindaca di Fonni (NU) Daniela Falconi scriveva su Facebook un post addolorato e insieme indignato a proposito della chiusura del posto di Polizia Stradale del paese. Lo riporto testualmente e quasi integralmente:

SE QUESTO È STATO
In piena emergenza.
Mentre ognuno di noi è preoccupato per la propria salute e il proprio futuro.
Mentre i sindaci, gli amministratori, tutte le forze dell’ordine stanno impegnando ogni secondo della propria giornata per aiutare e dare totale assistenza ai cittadini.
Mentre viviamo un periodo storico senza precedenti che ricorderemo per sempre e ci racconteremo per sempre.
Lo stato cosa fa? Lo Stato abbatte su di noi una delle sue tante mannaie.
Ve lo racconto:
Il Primo Aprile – la data non è uno scherzo, giuro – per voce del Direttore Generale della Polizia di Stato arriva una nota alle Prefetture.
Ve la dico con parole loro: “il Direttore Generale della Polizia di Stato ha dato conto del generale processo di revisione delle strutture generali e delle articolazioni periferiche (…ecc ecc…)”
Ve la dico con parole mie: Vi chiudiamo il distaccamento di Polizia Stradale di Fonni.
Lo sanno dal Primo Aprile (sempre in piena emergenza), ce lo dicono adesso (sempre in piena emergenza) con una lettera “di cortesia” arrivata alla mia mail che non è ne una Pec ne una raccomandata.
Ci dicono ovviamente che i servizi miglioreranno.
Ci dicono ovviamente che il costo è spropositato (30.000 Euro l’anno di affitto, questo vale l’abbandono di un territorio per uno Stato).
Ci dicono ovviamente che sia Nuoro che Gavoi sono vicinissimi (da Roma conoscono “alla perfezione” le nostre curve)
Ci dicono che la Polizia Stradale di Fonni accerta un certo numero di violazione senza citare l’opera di prevenzione, di presidio costante e di supporto al territorio all’interno di un’area vastissima.
Io invece dico una sola cosa: ogni volta che lo Stato deve tagliare qualcosa, taglia a livello periferico. Non parte mai “dal centro”.
E questa cosa da qualunque parte la si guardi e la si giri, è inaccettabile.
Siamo forse “cresciuti” da quando da decenni i tagli colpiscono salute, istruzione e sicurezza nei territori marginali e nelle aree periferiche? Lo Stato è più sano finanziariamente? Il cittadino è più soddisfatto dei servizi che riceve?
Se non fosse che c’è da piangere mi verrebbe da ridere fragorosamente.

Una decisione governativa calata dall’alto sulla Sardegna senza alcun riguardo per la situazione concreta su cui incide. Non una novità, nella nostra storia.

Ed è anche comprensibile, guardando la cosa dal lato italiano. Quando si parla di spesa pubblica statale, la Sardegna appare giusto come un costo, spesso ingiustificato. Non certo per gli investimenti infrastrutturali o altri interventi che integrerebbero diritti e partecipazione piena alla cittadinanza, sempre minimi. Mi riferisco invece alle spese reali che lo stato effettua in Sardegna: dipendenze ministeriali varie, forze dell’ordine, spese militari.

Il loro computo totale naturalmente non è esiguo e contribuisce ad alimentare la leggenda (coloniale) sui “residui fiscali”: lo Stato spende per la Sardegna più di quanto ne tragga come imposizione tributaria, dunque la Sardegna è in debito verso lo Stato.

È una cornice interpretativa molto ideologica che serve anche a nascondere la cruda realtà di un sottosviluppo economico indotto, dovuto a rapporti di forza tutt’altro che “spontanei” o discendente da meriti peculiari delle regioni più ricche.

Se non si analizza e soppesa la natura della spesa statale nell’isola, la questione risulta priva di qualsiasi contenuto significativo. Considerando le vertenze strategiche aperte (dai trasporti all’istruzione, dall’energia alle servitù militari, ecc.), appare chiaro che presentare come necessaria la dipendenza della Sardegna dallo Stato italiano serve solo a giustificare tale dipendenza, attribuendone per altro la “colpa” ai sardi (in quanto entità collettiva indistinta, razzialmente designata) e lasciando immutato il rapporto di forza sbilanciato (di cui si giova la classe politica locale, nel proprio interesse).

Pensiamo alla retorica sui “sardi incapaci di fare impresa”. Una lettura tutta interna all’ideologia neoliberista, quindi già di suo orientata, con evidenti tratti colonialisti, molto diffusa e radicata eppure – a ben guardare – smentita dalla realtà. Proprio Fonni, guarda caso, è un esempio di comunità sarda non certo avvantaggiata da condizioni di fatto favorevoli, che pure, e non solo ultimamente, dimostra una vitalità economica non banale. Ma potrei citare anche altri centri sardi, spesso medio-piccoli, che avrebbero da dare lezioni di abilità imprenditoriale e di creatività economica a tanti supponenti guru del Nord Italia.

Evidentemente non c’è alcuna tara razziale che debilita il tessuto economico sardo, e nemmeno condizioni di fatto così radicalmente controproducenti (pensiamo alla mistificazione dell’insularità) da risultare insormontabili. Il problema è di altra indole e va affrontato sul suo terreno, come argomentato tante volte anche su queste pagine.

Detto ciò, e per tornare alla questione specifica, una delle domande da farsi è: quanto incide la spesa statale, diretta e indiretta, relativa alle forze dell’ordine sull’intero ammontare della spesa statale nell’isola? È una domanda di cui non conosco la risposta. Mi piacerebbe conoscerla. E, ancor prima: quali sono il senso e il ruolo delle forze dell’ordine nell’isola?

Ora, su quest’ultimo punto andrebbe fatto un bel lavoro di analisi, critica e proposta. L’idea che la presenza di polizia, carabinieri ecc. sia un segnale di attenzione da parte dello Stato andrebbe decostruita e soppesata per bene.

Che i reali bisogni della popolazione e dei nostri territori abbiano poco peso nei disegni della classe dirigente italiana lo dimostra già la circostanza di questa chiusura, a Fonni, di uno dei pochi presidi delle forze dell’ordine connessi con la realtà concreta in cui operano.

La sindaca Falconi ha le sue buone ragioni per stigmatizzare la decisione in quanto tale e anche le sue basi politiche e ideologiche.

Io tuttavia enfatizzerei un aspetto del suo appello che resta implicito, assunto come un assioma di partenza, ma che andrebbe discusso anch’esso. Mi riferisco al fatto di guardarsi con gli occhi stessi dello stato centrale. Di sentirsi “periferia” rispetto a un centro posto altrove, lontano, ma dotato del potere decisionale.

Intendiamoci, questo è un dato di fatto, non un’impressione soggettiva. E però è proprio in quanto dato di fatto che meriterebbe di essere indagato meglio. Se il problema alla fine è che siamo periferia di qualcos’altro, non sarebbe forse il caso di modificare precisamente questa condizione?

È un problema generale, che tocca tutti gli aspetti della nostra vita collettiva. Ma restiamo su questo specifico ambito. Che cos’è, in cosa consiste e come funziona la pubblica sicurezza, sa giustìtzia, in Sardegna? Siamo sicuri che la presenza delle forze dell’ordine nel loro complesso sia sottodimensionata? Al di là delle periodiche lamentele per “l’assenza dello Stato” e di un presunto mancato controllo del territorio, davvero abbiamo la percezione che in Sardegna siamo sguarniti di polizia, carabinieri, guardia di finanza ecc.?

Se penso alla realtà di Nuoro – capoluogo delle famigerate Zone Interne, quelle dell'”istinto predatorio” e della “cultura del coltello”, una zona che per la maggior parte degli indici statistici è tra le meno problematiche d’Europa, sul piano della criminalità – mi viene piuttosto da concludere che la presenza delle forze dell’ordine sia ingiustificatamente pletorica.

Provate a passare una sera qualsiasi dell’anno nel centro di Nuoro e fate caso a quante autopattuglie dei diversi corpi di pubblica sicurezza passeranno nel giro di un’ora. Anche in pieno Corso, d’estate, con i tavolini dei locali a pochi centimetri dagli pneumatici e dagli scarichi delle volanti. Chi ci vive, non ci fa più caso. Ma non è un’evenienza ordinaria e neutra.

Cito il caso di Nuoro non solo perché lo conosco, ma anche perché è direttamente correlato alla situazione di Fonni, comune che dista dal capoluogo giusto 32,5 Km, sia pure di strada non proprio scorrevole (problema pratico di cui a Roma non hanno tenuto alcun conto).

Alla luce della situazione, siamo sicuri che la prima cosa da tagliare, se proprio il Ministero dell’Interno aveva quest’esigenza di risparmio in provincia di Nuoro, fosse il posto di Polizia Stradale di Fonni?

Il dispregio per la realtà di fatto, la mancata conoscenza dei luoghi, delle loro caratteristiche demografiche e delle dinamiche sociali che li animano, sono un aspetto evidente non solo di questa singola decisione ma di quasi tutto ciò che da Roma viene calato automaticamente, senza filtri e senza alcuna mediazione, sulla Sardegna.

Questo in generale. Ma in particolare, sulla questione considerata, l’osservazione va ulteriormente approfondita.

L’impressione è che la presenza eccedente e ben visibile delle forze dell’ordine in Sardegna, e in certe zone specialmente, sia una manifestazione “spettacolare” di un controllo del territorio ostentato, che deve suonare come un avvertimento, più che avere un ruolo attivo di contrasto della (poca) criminalità o una funzione non banalmente repressiva di servizio alla cittadinanza.

Mi piacerebbe essere smentito, eventualmente, con dati e fatti, e non con dichiarazioni retoriche o, peggio, asserzioni ideologiche non sempre esenti dal sospetto di razzismo (e a volte di auto-razzismo).

Non è una questione propriamente sarda, sia chiaro.

Qual è, in generale, il ruolo delle forze dell’ordine nella nostra società attuale, anche e soprattutto negli ordinamenti democratici? Se lo stanno chiedendo molti osservatori e molti studiosi soprattutto in Nord America, in questi giorni di violenze (da parte della polizia) e di mobilitazioni popolari.

Non pochi stanno ragionando, per esempio, sull’effetto moltiplicatore de disordine che ha la presenza stessa della polizia per le strade, magari nei quartieri “ghetto”, delle città USA. E stanno ragionando sulla funzione stessa delle forze dell’ordine e sull’idea di definanziarle e depotenziarle (come in questo pezzo della CNN, o come spiegato in quest’altro su Jacobin Italia).

Alex Vitale, professore di sociologia e coordinatore del Policing and Social Justice Project al Brooklyn College e autore di The End of Policing, arriva a dichiarare (proprio nel pezzo su Jacobin di cui sopra):

[…] abbiamo visto cartelli la scorsa settimana in piazza che dicono: «Ridurre i finanziamenti  alla polizia». Questo slogan incarna l’idea che non possiamo riformare la polizia, dobbiamo invece ridurne l’attività in ogni modo possibile e sostituirla con soluzioni democratiche, pubbliche e non repressive. Questa idea è stata sviluppata negli ultimi cinque anni, dal momento in cui le persone hanno a che fare con la polizia e la criminalizzazione apprendono in prima persona quanto siano inutili queste riforme. Sempre più persone stanno capendo che la strada da percorrere è ridurre l’apparato di polizia e sostituirlo con alternative finanziate con fondi pubblici. Allo stesso modo, ogni sforzo per produrre un movimento multirazziale della classe operaia ha bisogno di ridurre il sistema carcerario dello stato come parte della sua piattaforma. L’incarcerazione di massa e la criminalizzazione di massa sono una minaccia concreta per tutti i nostri progetti politici. Fomentano la divisione razziale, colpiscono la solidarietà, instillano la paura, riducono le risorse a nostra disposizione, mettono gli attivisti in posizioni precarie e sconvolgono i movimenti. I riformisti sono tutti presi dalla comprensione della società statunitense. Credono che l’applicazione neutrale e professionale della legge si traduca automaticamente in vantaggi per tutti, pensano che lo stato di diritto ci renda tutti liberi. Ma si tratta di un grave fraintendimento della natura dei contesti giuridici in cui viviamo. Questi non avvantaggiano tutti allo stesso modo. C’è un famoso detto del diciannovesimo secolo che afferma che la legge proibisce sia ai ricchi che ai poveri di dormire sotto i ponti, di chiedere l’elemosina per le strade e di rubare il pane. Ma ovviamente i ricchi non fanno queste cose. Le fanno i poveri. In definitiva, le attività di polizia riguardano il mantenimento di un sistema di proprietà privata che consente di perpetrare lo sfruttamento. È stato uno strumento per facilitare i regimi di sfruttamento dalla fine del diciottesimo e all’inizio del diciannovesimo secolo. Quando si formarono la maggior parte delle forze di polizia moderne, quei regimi erano colonialismo, schiavitù e industrializzazione. La polizia è emersa per gestire le loro conseguenze: reprimere le rivolte degli schiavi, reprimere le rivolte coloniali, costringere la classe operaia a comportarsi come una forza lavoro stabile che non si mobilita. Questa è la natura fondamentale della polizia. È un soggetto che non si è mai curato di produrre l’uguaglianza, al contrario. È esistito per sopprimere i nostri movimenti e consentire allo sfruttamento di procedere.

Sono prese di posizione molto forti, che non mi sentirei di attribuire solo al particolare momento che stanno vivendo gli USA, né a loro specifiche caratteristiche sociali e culturali o alla loro peculiare organizzazione delle forze di polizia.

Se ci si astrae dalla contingenza geografica e cronologica, possiamo provare a considerare i tratti essenziali del ragionamento e applicarlo a una realtà pure così diversa dagli USA come la Sardegna.

Sappiamo come nel corso degli ultimi tre secoli, dall’arrivo dei Savoia sul trono sardo (1720) in poi, la cornice criminale e del contrasto al “disordine pubblico” sia stata quella largamente prevalente nell’affrontare i problemi dell’isola. Grande inauguratore di questa modalità di intervento fu il marchese di Rivarolo. Negli anni Trenta del Settecento, da viceré, desideroso di mettere le cose a posto una volta per tutte, fece un lungo giro tra i feudi e i villaggi. Quando arrivava in un centro abitato, la prima cosa che disponeva era l’erezione della forca, tanto per mettere in chiaro l’approccio.

Gli stessi sommovimenti sociali e politici del periodo rivoluzionario, con i suoi lunghi strascichi, furono brutalmente repressi in termini di ripristino dell’ordine costituito, della “legalità”.

Se guardiamo agli ultimi due secoli, poi, l’approccio “delinquenziale”, prima e dopo gli “studi” in proposito di Orano e Nicefono (1896-7), passando per il fascismo, la repressione del “banditismo” degli anni Sessanta, la Relazione finale della Commissione “Medici” (1972) e fino alle esternazioni del procuratore Saieva (2016) e dell’ex questore di Oristano Di Ruberto (2017), è stato una notevole costante.

Non dimentichiamo le “attenzioni” poliziesche a cui veniva sottoposto qualsiasi sardo, in quanto sardo, fuori dall’isola tra anni Settanta e anni Ottanta del secolo scorso (ma col fondato sospetto che queste misure non siano mai venute meno). Una particolare denotazione razziale di lunga durata e di ostinata applicazione.

Che ci sia un problema tra la Sardegna e sa giustìtzia mi pare un dato evidente, di natura storica, oltre che squisitamente sociologica. E dunque forse sarebbe ora di ragionarci su, fuori dalle cornici identitarie e mitologiche (compresa quella di Antonio Pigliaru) e in termini propositivi.

Lo Stato vuole risparmiare sulle sue spese in Sardegna? Aiutiamolo a farlo nel modo meno ottuso e meno dannoso per le nostre comunità. Per esempio rimettendo in discussione non solo la dislocazione ma anche la quantità delle forze dell’ordine di dipendenza ministeriale, e dunque i loro compiti, le loro forme di reclutamento e direi anche la loro provenienza.

Al di là degli aspetti formali a cui ancora è inevitabile soggiacere, la presenza dello Stato in termini repressivi e come gestione della pubblica sicurezza andrebbe ridimensionata e ripensata. A patto, beninteso, di riorganizzare le forme e l’azione del contrasto alla criminalità e ancora prima la sua prevenzione tramite misure alternative, più rispondenti ai reali bisogni del territorio, meno invadenti e invasive ma più prossime e più efficaci.

La Sardegna ha già una lunga tradizione, in questo senso, dai tempi dei “giuramentos de iscolca“, delle milizie locali, delle compagnie barracellari. L’imposizione di un controllo di polizia dall’alto e dall’esterno non è mai stato un fattore di risoluzione dei problemi di criminalità, né un particolare deterrente (anzi!). Le poche funzioni realmente positive (come quelle svolte dalla Polizia Stradale nei comuni più disagiati sul piano dei trasporti e della collocazione geografica) potrebbero essere svolte da forme di vigilanza civile sul tipo del Corpo dei Vigili del fuoco Volontari trentini, o da corpi di polizia regionale (come quello Forestale), o dalle stesse compagnie barracellari (aggiornate, riformate, dotate di mezzi).

Andrebbe ridimensionata radicalmente la funzione repressiva e ampliata quella di vigilanza “amichevole”, di prevenzione e intervento rapido, irrobustendo di formazione e di mezzi la polizia locale. Questo anche al fine di scongiurare in partenza la degenerazione dei contrasti tra grumi di interessi privati e interesse generale (causate dalla cattiva politica) che prende a volte la forma deleteria di attentati agli amministratori pubblici. Senza dimenticare, nei casi residui e sempre più rari di disamistades, la funzione della mediazione e del ricomponimento pacifico (tentata con successo in molti luoghi del pianeta dove ancora insistono queste dinamiche).

Non si può non citare qui, di passaggio ma non senza connessioni con la questione principale, l’annoso problema delle prefetture, un residuato da stato autoritario e centralista di cui si farebbe davvero a meno. Anche in base a una considerazione di indole ragionieristica (dato che stiamo a contare gli euri).

Naturalmente questa prospettiva si scontra con l’esigenza di controllo e repressione dello Stato su un territorio come quello sardo, considerato problematico, a tratti ostile, marginale ma strategicamente importante. Un’esigenza di stampo evidentemente coloniale, che non è mai venuta meno.

Per quanto possa suonare sgradevole o politicamente scorretto, questo è un nodo da cui non si può prescindere. Si tratta di affrontarlo in termini politici, su un terreno di ragionevolezza pragmatica. Rimuoverlo non è mai servito né servirà mai a niente.

Provare a scioglierlo comporterebbe, come auspicato, una riflessione ampia e diffusa, sia sul piano intellettuale e teorico, sia su quello della progettualità politica, riflessione a cui però, mi pare, non siamo del tutto preparati. Ci mancano studi adeguati, dati raccolti con criteri conoscitivi calibrati sull’oggetto e sulle finalità della ricerca, una prospettiva in cui inserirli, una volontà politica democraticamente solida. Ci manca una classe politica all’altezza e ci manca una classe intellettuale accademica a sua volta più libera, più aggiornata, non corporativa, dinamica e almeno in parte autonoma rispetto alle logiche che dominano la politica universitaria italiana e la politica italiana tout court.

In mancanza di tutto ciò, ma ottimisticamente in attesa di ottenerlo, possiamo giusto provare a impostare un ragionamento, laico e onesto, sul problema. Fuori dalle solite cornici stereotipate e anche dalla logica emergenziale, che sono sempre pessime consigliere.

In questo senso, le pur drammatiche lezioni che ci arrivano tanto dalla gestione “poliziesca” della pandemia da covid-19 quanto dalle mobilitazioni popolari in corso negli USA e in tante parti del mondo sono preziose e da mettere a frutto.

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