La campagna elettorale sarda sta mettendo in evidenza alcuni fattori decisivi della nostra sfera politica e sociale.
La persistenza di problemi strutturali mai risolti (leggi: mai voluti risolvere); la mediocrità della nostra classe politica e dirigente in generale; il prezzo altissimo che dobbiamo pagare per la cappa ideologica e tematica imposta dall’egemonia politica italiana nell’isola; l’indispensabilità di avere una nostra voce e una nostra soggettività riconosciuta a livello di stato italiano e a livello internazionale.
L’esplodere – non casuale – della vertenza sul prezzo del latte ovino è l’emblema dei nodi irrisolti della nostra epoca contemporanea.
Una disfunzionalità messa in moto con la chiamata in Sardegna degli imprenditori caseari toscani e laziali che dovevano trasformare un prodotto ormai in eccedenza come il latte di pecora.
L’eccedenza era dovuta al fatto che le grandi estensioni di terra privatizzate a partire dell’Editto delle chiudende e dalle sue applicazioni erano state prevalentemente destinate al pascolo, non alle migliorie agricole.
Poco investimento a fronte di una rendita sicura garantita dagli affitti. In più l’opera di disboscamento attuata intorno e subito dopo la metà del XIX secolo avevano aperto nuovi spazi all’allevamento brado delle pecore.
Naturalmente la situazione si era presto incancrenita, aprendo il naturale conflitto tra allevatori-conferitori di materia prima e i trasformatori. La vertenza sul prezzo del latte ha più di cento anni.
Alcune cose sono mutate, nel frattempo. Per esempio gli industriali sono ormai solo sardi e ad essi si sono sommate le cooperative, alcune grandi, altre piccole, alcune efficienti e in grado di rispondere ai propri scopi, altre in seria difficoltà e alcune in fase di chiusura.
Quel che non è cambiato è che questo settore è diventato una specie di zavorra, anziché una voce importante dell’economia sarda.
Intendiamoci, è e rimane una voce importante. Lo è per dimensioni, per personale occupato, per territorio coinvolto.
Ma, rispetto alle sue potenzialità, il suo peso sul PIL è basso e la sua capacità di rispondere agli stimoli del mercato internazionale è scarsa.
Ovviamente chi paga il prezzo delle inefficienze sono soprattutto gli anelli deboli della catena, specie gli allevatori più piccoli, disorganizzati o tenuti in ostaggio da rapporti di produzione che non possono controllare.
La cosa che rileva nella presente disamina, però, non sono tanto gli aspetti strutturali del problema, né le sue possibili soluzioni.
A mio avviso sulle soluzioni si è già ragionato abbastanza e sono sul tappeto. Solo, non incontrano il favore della politica dominante (che ha tutto l’interesse a mantenere il settore sotto ricatto) né di diverse componenti della filiera, compresi molti pastori a cui va benissimo stare dove stanno purché arrivino puntualmente gli aiuti richiesti e i vari finanziamenti a cui hanno diritto.
La cosa che vorrei sottolineare, invece, è che se una questione così rilevante dura da così tanto tempo significa che nessuno ha mai davvero voluto risolverla. Più va avanti e meno sarà risolubile, se non a prezzo di dolori e sacrifici maggiori.
L’ambito pastorale, purtroppo, nel corso del tempo, non ha mai voluto assumere su di sé il ruolo di avanguardia emancipativa, la funzione di corpo sociale forte e propositivo, radicato e orientato al benessere non solo proprio ma in generale dell’intera economia sarda.
Non ha mai voluto farsi classe dirigente, insomma. Anche per via delle pressioni delle associazioni di categoria, ha sempre preferito delegare a centri di potere esterni la propria tutela e la propria sopravvivenza. Senza una visione complessiva delle cose e senza mai accettare il fatto che delegare significa mettersi nelle mani di altri.
Lo spettacolo indecoroso offerto dalla delegazione della Coldiretti al cospetto del ministro “di ogni cosa” a Roma sta lì a dimostrare quanto poco paghi questo tipo di approccio.
Ovviamente da quella parte non è venuta alcuna soluzione, come ampiamente previsto, a dispetto delle fanfaronate del ministro e delle speranze di chi ha ceduto a questa illusione.
Così come non verrà alcuna soluzione da alcun “tavolo” ministeriale o assessoriale che sia.
Le questioni di questo tipo devono essere risolte coinvolgendo sì tutti gli attori interessati, ma su un piano di prospettiva pluriennale, con una pianificazione coraggiosa.
Dubito che si farà oggi e ho la certezza che non si farà nemmeno domani, se a livello di consenso politico continueranno a essere preferite le cricche di podatari e prestanome, capi-bastone clientelari e signori delle tessere che hanno dominato la scena fin qui.
Teniamo conto che avere un settore agro-alimentare forte in Sardegna significa l’erosione di quote di mercato per analoghe produzioni italiane.
L’idea bislacca che i progressi della Sardegna dipendano da quelli dell’Italia è smentita dalla banale osservazione dei fenomeni così come si svolgono.
Nessun governo italiano avrà mai a cuore lo sviluppo e il successo di un qualsiasi settore produttivo sardo. Per ragioni oggettive.
Il turismo, per esempio, soprattutto quello culturale ed enogastronomico. Se la Sardegna avesse una sua riconoscibilità sui mercati internazionali, farebbe concorrenza non solo a Spagna, Francia, ecc. ma anche e soprattutto all’Italia. La distanza geografica e l’alterità storica hanno un peso insopprimibile.
A maggior ragione fa specie anche su questo terreno l’estrema impreparazione dei candidati alla presidenza della Regione, in particolare di quelli dei poli italiani.
Basti riportare le parole pronunciate dal candidato del centrosinistra, una vera sequela di sciocchezze:
“Dobbiamo promuoverci – ha detto il candidato presidente di centrosinistra a proposito di turismo – ma non per i sardi com’è stato fatto fino a ora. Promuoverci sempre e all’estero e, non me ne abbiano gli indipendentisti, metterci il nome Italia perché nel resto del mondo, i viaggiatori scelgono l’Italia: vogliono arte, cultura, storia, tradizioni, musica e solo per ultimo il mare. Noi abbiamo tutto questo”. (M. Zedda)
Per altro, non si tratta solo di sciocchezze limitate al merito della questione specifica (l’appetibilità turistica della Sardegna), ma segnalano anche qualcosa di più profondo: una sindrome da self-colonized dura a morire, una straripante noncuranza di sé, dalla propria terra, della propria storia.
Non è strano, per rappresentanti di una classe politica allevata in batteria per essere priva di qualsiasi visione autonoma, ma solo funzionale a mantenere in piedi il sistema di dominio politico e sociale vigente in Sardegna.
A tale mediocrità è difficile sottrarsi, perché naturalmente condiziona l’intero dibattito pubblico. I mass media in questo senso, lungi dall’essere un contraltare democratico, sono una parte in causa che sceglie di volta in volta da quale parte stare, a seconda delle esigenze dei propri padroni.
Così vengono tenute fuori dalle discussioni e dagli stessi resoconti di cronaca tutte le questioni che, se affrontate, minaccerebbero di smascherare la pochezza della politica politicante e dell’intera classe dirigente sarda o susciterebbero interrogativi, domande, aspettative fuori controllo.
Prendiamo due faccende di questi giorni.
Una è la discussione su autonomie versus centralismo innescata dalle richieste delle regioni settentrionali italiane di avere maggiori competenze e maggiori entrate fiscali, secondo una prospettiva per altro pienamente inserita nei dettami costituzionali in vigore.
Il confronto è articolato e direi anche piuttosto confusionario.
La sinistra italiana si presenta del tutto impreparata al confronto, ponendosi – non troppo paradossalmente per chi ne conosca la storia – come il baluardo del centralismo nazionalista contro le pretese autonomiste e federaliste (e non parliamo dell’indipendentismo).
La destra, compresa quella leghista, data la trasformazione del partito di Salvini da forza localistica a organizzazione pan-italiana, si barcamena nelle proprie contraddizioni.
In generale però anche qui, oltre alla retorica nazionalista reazionaria, prevale l’ostilità verso un decentramento che toglierebbe potere e controllo al centro per conferirlo alle regioni.
Inoltre esiste un’inerzia fortissima, a favore del centralismo, anche da parte del deep state italiano, il livello opaco e di difficile definizione dove si intrecciano gli alti gradi dell’amministrazione pubblica, i grandi enti del para-stato, le grandi lobby affaristiche, i servizi di informazione.
Non a caso da anni ha ormai prevalso nuovamente a ogni livello la narrazione sciovinista e risorgimentale, sostanzialmente conservatrice.
E non a caso è stata ridimensionata l’esclusione di principio del fascismo in tutte le sue forme dalla legittimità pubblica.
Oggi il Presidente della Repubblica può serenamente fare discorsi revisionisti, che suonano pericolosamente in consonanza con le più nefande rivendicazioni neo-fasciste su Istria e Dalmazia, e nessuno batte ciglio.
Questo per dire quanto sia difficile ancora oggi in Italia impostare un serio e costruttivo dibattito su una riforma federale dello stato e sul riconoscimento a tutti gli effetti delle minoranze interne.
Ebbene, in un frangente in cui questo tabù sembra essere messo in difficoltà e il tema si impone anche a livello mainstream, la Sardegna è muta.
Anni di discorsi a vuoto sulla necessità di riformare lo statuto di autonomia, e quando si offre l’occasione per entrare con una propria personalità e una propria voce in questo importante discorso proprio la politica sarda tace.
Attenzione, le pulsioni egoistiche delle regioni come il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna sono criticabili e opinabili, non c’è dubbio. Così come è stigmatizzabile l’atteggiamento schizofrenico del governo gialloverde.
Tuttavia anche solo il fatto di lasciare ad altri la guida di una discussione che alla Sardegna interessa per ragioni sue, strutturali e strategiche, è un errore colossale.
Che la nostra classe politica non abbia nulla da dire in merito è gravissimo. Che non se ne discuta in campagna elettorale è il segno della pochezza in cui ci dibattiamo.
La Sardegna avrebbe tutto da guadagnare dall’apertura di nuovi spazi di contrattazione con lo stato centrale e dalla conquista di nuove e più larghe competenze in materie fin qui di esclusiva competenza centrale.
Pensiamo al patrimonio storico-archeologico, o alla questione trasporti, o alla questione energetica, o alla scuola e all’università: tutti ambiti strategici in cui avremmo bisogno di pianificare e realizzare in modo lungimirante dei modelli ritagliati su misura sul nostro territorio, la sua demografia, la sua storia, le sue necessità e le sue risorse.
In ogni caso, su questo terreno bisognerà confrontarsi negli anni a venire, che piaccia o non piaccia alle centrali di interesse e di potere che dominano l’isola. E che piaccia o non piaccia alla classe dominante italiana.
Per questo – e qui vengo alla seconda vicenda – sarebbe di massima importanza seguire attentamente l’andamento del processo che si sta tenendo a Madrid contro i leader indipendentisti catalani.
Lì, ora, si sta creando un precedente storico e giuridico che non può essere ignorato, sia in quanto cittadini europei, sia in quanto popolo in cerca di una via per la propria autodeterminazione democratica.
Anche su questo terreno, politica e mass media ma anche classe intellettuale e accademica in Sardegna latitano paurosamente.
Non è un caso, ma non è certo un bel vedere.
Essere privi di una visione internazionale in cui inserire la nostra ubicazione storica e politica è una mancanza che presenta un conto salato da pagare.
In quest’ottica, non avere alcuna rappresentanza in sede europea, quale che sia il giudizio che si dà dell’attuale Unione, è un danno oggettivo.
Non essere presenti né come soggetto né come tema di discussione sui tavoli internazionali è un peccato capitale.
Ma anche questa sfera di obiettivi e di significati non sembra avere cittadinanza nel dibattito politico sardo, tanto meno in quello elettorale.
Il che è paradossale quando si discute di temi che hanno ormai la loro prevalente sede di decisione in Europa. Compreso tutto ciò che riguarda il comparto agricolo, zootecnico e agro-alimentare.
A maggior ragione mi sento di rilanciare la proposta di candidatura unitaria per le prossime elezioni europee, alla quale ho aderito con spirito costruttivo, affinché si lavori a dare alla Sardegna una rappresentanza sua, autonoma e autorevole in tale sede.
Richiamare e mettere in consonanza la congerie di questioni di cui ho parlato fin qui non è una scelta casuale né estemporanea.
Si tratta di questioni strettamente connesse l’una con l’altra. Tutte hanno a che fare con una condizione storica deficitaria che non è più sostenibile per molto tempo.
Confido che, una volta passata la campagna elettorale, troviamo i modi e le sedi per rilanciare un dibattito approfondito su tutti i temi strategici, e si trovino le forze morali per fare un salto di qualità collettivo verso un processo di emancipazione e di autodeterminazione democratica finalmente dispiegato, solidale, consapevole e coerente.