Il tema dell’indipendentismo e del processo di autodeterminazione in Sardegna è ormai centrale nel dibattito politico dell’isola.
Lo è a prescindere e a dispetto della considerazione che ne ha la classe dominante isolana, nelle sue varie articolazioni, e l’egemonia culturale che ancora esprime.
Questa ostilità (ovvia) comporta però che, per lo più, a ragionare di questi temi siano gli stessi soggetti coinvolti direttamente, di solito a ridosso di occasioni contingenti come una tornata elettorale, in un processo di auto-analisi e auto-valutazione che per forza di cose non può essere mai del tutto obiettivo, né scevro di interferenze emotive o di interessi di parte.
Del resto, sono anni che le dinamiche interne all’indipendentismo sardo sono sempre le stesse. A volte sono gli stessi anche i personaggi che le animano.
Sulla faccenda, però, mi pare di vedere ancora parecchi equivoci.
Alcuni non sono nemmeno equivoci, ma fraintendimenti interessati di chi non desidera affatto che sull’isola maturi un processo di autodeterminazione democratica forte, diffuso e consapevole.
Del resto, ci sono diversi soggetti che si dichiarano indipendentisti o para-indipendentisti o simpatizzanti esterni dell’indipendentismo che operano per scongiurare che si realizzi un’autodeterminazione realmente democratica ed orientata alla giustizia sociale.
Altri equivoci sono invece piuttosto i sintomi di una certa immaturità politica dello stesso indipendentismo, dovuta a una scarsa preparazione di fondo e spesso alimentata da chi preferisce gestire un gruppo di seguaci fedelissimi piuttosto che confrontarsi apertamente e alla pari con una platea ampia, formata e consapevole.
Prima di entrare nel merito dei problemi, vorrei però chiarire una volta per tutte un aspetto fondamentale, a cui si dà troppo poco peso.
La militanza politica non è una barzelletta, mai, e chi la pratica in questi contesti minoritari e minorizzati, in nome di un obiettivo collettivo non egoistico, non ha mai nulla da guadagnarci personalmente, tanto meno qualcosa di cui vergognarsi.
Lo si fa per convinzione ideale, per sentirsi partecipi di qualcosa di più grande, per provare a cambiare le cose e non limitarsi a dirlo, per tante ragioni anche strettamente soggettive, con i propri limiti e le proprie debolezze umane, com’è inevitabile.
Il succo del discorso è che l’esercizio del disprezzo e del dileggio verso l’indipendentismo e gli indipendentisti, molto in voga soprattutto presso gli intellettuali organici dell’apparato di dominio coloniale sardo e gli organi di stampa mainstream, è una pratica detestabilmente anti-democratica.
Tanto più che gli indipendentisti, nel corso degli ultimi quarant’anni, hanno saputo far emergere tematiche e questioni altrimenti ignorate, oggi al centro dell’agenda politica sarda.
In un modo o nell’altro hanno sempre costituito un contraltare critico per l’ordine socio-politico costituito, a volte l’unico contraltare, specie dalla fine della Guerra fredda, nei primi anni Novanta del secolo scorso.
Il panorama politico sardo, senza gli indipendentisti, sarebbe la palude putrescente che è, in mano ad avventurieri di ogni risma, delegati coloniali senza scrupoli, lobby e padrini, ma senza alcun contraltare teorico e pragmatico, senza una prospettiva alternativa a cui far riferimento, senza speranza.
Detto ciò, è anche vero che spesso gli indipendentisti, nelle loro diverse anime, non hanno reso un buon servizio alla propria causa. Per esempio riducendo il dibattito sulla questione a litigi personali o a dinamiche autoreferenziali.
Questa è non solo una dimostrazione di immaturità politica, come dicevo più sopra, ma anche un danno a tutto l’ambito politico sardo e alla nostra vita pubblica in generale.
Occorrerebbe un salto di qualità a tutto il processo di autodeterminazione, nelle sue diverse componenti sociali, organizzative, intellettuali.
Bisogna tener conto delle condizioni storiche reali e delle dinamiche sociali concrete, delle forze in campo, dei fattori restrittivi interni ed esterni.
Serve un discorso che non sia pura astrazione e pura teoria, insomma, ma concreta base per un mutamento in meglio della vita sull’isola.
Ma partiamo da qualche dato di realtà, su cui poter basare il ragionamento.
Uno degli equivoci di fondo sulla questione, alimentato ad arte dalle forze sociali e politiche dominanti, è che l’indipendentismo sia una minoranza auto-rappresentativa, senza radicamento e senza prospettive.
In realtà, com’è facilmente deducibile anche solo dai numeri elettorali, siamo di fronte a un ambito politico sì plurale e non coeso, ma non per questo quantitativamente insignificante. Parliamo di decine di migliaia di voti regolarmente espressi a più riprese in diverse tornate elettorali degli ultimi vent’anni.
La retorica anti-indipendentista dello “zero virgola” è solo un espediente da quattro soldi, ancora largamente usato, ma che non fa certo onore a chi lo usa (perché fondamentalmente ne denota lo spirito anti-democratico). Bisognerebbe saper rispondere senza troppe cerimonie ma anche senza dare troppo peso.
Ma questo se vogliamo è il livello meno significativo. Sugli esiti elettorali influiscono fattori esterni, anche contingenti, e rapporti di forza che esulano dalla natura e dalla qualità politica specifica dei contendenti.
A un livello più profondo è evidente – ed alcune indagini demoscopiche, mai adeguatamente approfondite, lo attestano – che nella società sarda esiste non solo un diffuso sentimento di appartenenza ma anche un’ampia domanda di autogoverno.
La debolezza con cui si manifestano queste aspirazioni non è dovuta alla loro intrinseca improponibilità, ma caso mai, e in modo decisivo, all’esistenza di una robusta egemonia culturale avversa, a sua volta strumento di dominio dentro un quadro di rapporti sociali e politici largamente diseguali, squilibrati, per tanti versi di natura coloniale.
Come ho avuto già modo di dire, c’è un’enorme questione di “conflitto di classe” dentro il processo di autodeterminazione da realizzare.
Se non si tiene conto di questi fattori, i ragionamenti che si fanno sul tema sono destituiti di fondamento in partenza.
Dato che la questione dell’autodeterminazione e dell’autogoverno della Sardegna è prima di tutto una questione di democrazia ancora inespressa, bisogna domandarsi come fare a dispiegarne tutto il potenziale
Come prospettiva politica ha in sé le ragioni e le caratteristiche per diventare a sua volta egemonica, solo che si riempisse di contenuti pragmatici e si fondasse su un radicamento sociale più robusto.
In altri termini, se ben pochi sardi oggi – al di fuori della cerchia dei privilegiati dalla dipendenza – sono spaventati dall’idea del conflitto con lo stato italiano, è altrettanto vero che non sono tanti quelli che ci scommetterebbero su a scatola chiusa.
E questa è pura e semplice ragionevolezza.
Cosa offrire dunque alla collettività sarda nel suo insieme e alle sue forze sociali e produttive come alternativa alla subalternità patologica?
Negli anni l’indipendentismo ha puntato molto sulle questioni ideali e teoriche, su concetti di base apparentemente molto forti, ma alla prova dei fatti mai decisivi.
Ha preso molto campo, per esempio, la questione identitaria, come se questa fosse il problema fondamentale risolto il quale tutti gli altri si sarebbero risolti di conseguenza.
Questa è una china non solo pericolosa per le sue implicazioni politiche (le questioni identitarie sfociano regolarmente in prospettive in stile “blut und boden”, reazionarie, di destra, anti-democratiche), ma anche poco efficace.
Per esempio la questione linguistica.
Ancora oggi c’è chi, in buona fede, ne farebbe il centro nodale di tutto il discorso dell’autodeterminazione. È una fallacia politica di notevoli dimensioni e l’ho già segnalata anche da queste parti.
L’unica connessione che possiamo trovare tra questione linguistica e processo di autodeterminazione è che una politica linguistica di salvaguardia e rilancio del sardo e delle altre lingue di Sardegna può avere piena cittadinanza solo dentro un processo di emancipazione democratica e di autogoverno, non il contrario.
Anche qui, porre la questione linguistica in termini essenzialisti ed eminentemente identitari non ha fatto altro che indebolirla. Occorrerebbe invece riformularla in termini di democrazia da realizzare, di diritti civili e politici da pretendere, di ricchezza culturale da non perdere.
Ma la fissazione identitaria (e sappiamo tutti cosa si intenda oggi per “identitario” nel discorso pubblico in Europa, vero?) non è la sola fallacia di impostazione nel percorso teorico indipendentista.
Un’altra analoga è quella storica e storicista, di matrice direi romantica. Il recupero di una memoria negata, la creazione di una mitologia del passato glorioso calpestato e negletto, l’applicazione sistematica di criteri e concetti attuali alla nostra storia, anche lontana, come strumento di battaglia politica.
Ma non basterà mai partecipare con le bandiere al vento alla rievocazione della Battaglia di Sanluri o spacciare la Rivoluzione sarda per un evento “indipendentista”, o evocare i nostri antenati nuragici, o Ampsicora, o chi diavolo volete voi per fondare un processo di liberazione sociale e civile dei Sardi.
Sono debolezze che hanno attratto anche me, non lo nego, specie per via della amara constatazione di quanto peso abbia la rimozione sistematica del nostro passato dall’armamentario mentale dei Sardi.
Ma è una china pericolosa e occorrerebbe mantenere un grande equilibrio, su queste tematiche.
Sostituire la mancata conoscenza storica con una mitologia magari non subalterna ma comunque tecnicizzata non è la ricetta giusta. Non per fondare un processo realmente democratico. Servirebbe invece, più facilmente, a mettersi nelle mani dei sacerdoti della “nuova verità”. Il che però non costituirebbe alcun progresso. Sappiamo bene come finiscano queste cose.
Allo stesso modo, il puro e semplice discorso anti-colonialista (benché storicamente fondato) non basta da solo a generare un diffuso processo di emancipazione collettiva.
Primo, perché non tutti i sardi hanno precisa cognizione della propria condizione storica e dunque non ne capiscono il senso.
Secondo, perché una parte consistente dei ceti medi e medio alti, che pure sarebbe necessario conquistare alla causa dell’autodeterminazione, non percepiscono se stessi come colonizzati (pur essendolo, in larga misura, specie dal punto di vista culturale).
In realtà, storicamente, nessuna “rivoluzione culturale” basta a se stessa, né è sufficiente a cambiare davvero le cose, se non si fonda su forti fattori socio-economici e relazionali, su una rispondenza tra elementi teorici e vita reale delle persone.
Sulla base di questi e di altri abbagli teorici in Sardegna si è invece innescato e radicato un paralogismo secondo il quale si può perseguire l’indipendenza, così, in modo assoluto e astratto, senza curarsi del resto, proponendosi come avanguardia illuminata a cui affidare il potere e poi procedere inarrestabili verso la salvezza.
Un approccio di tipo leninista, ma senza la riflessione marxista alle spalle né un orizzonte pragmatico e ideologico definito.
Il motto “indipendèntzia e bo’”, così caro a tanti militanti, riassume questo approccio direi di tipo fideistico.
A sostegno di tale approccio viene spesso citata (decontestualizzata) la massima di Antoni Simon Mossa “meglio una repubblica di straccioni che una colonia di miserabili”. Ma si tratta evidentemente di un paradosso provocatorio.
È abbastanza ovvio che il grande architetto algherese non auspicasse certo un futuro di indigenza per la Sardegna indipendente che sognava lui.
In definitiva bisognerebbe riformulare sia le basi teoriche, sia le scelte pragmatiche di un processo di autodeterminazione che non potrà che essere diffuso, democratico, plurale e popolare, se vorrà avere successo e robustezza storica.
Non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca, sia chiaro. Non si ricostruisce da zero. Ci sono tante cose che abbiamo maturato e imparato, negli anni. Anche gli errori sono utili per migliorarsi. Anzi, spesso sono più utili gli errori degli effimeri e occasionali successi.
Uno degli errori strategici più profondi dell’indipendentismo sardo contemporaneo è stato puntare tutto (in modo leninista, appunto) sul livello più alto delle istituzioni, saltando quasi a pie’ pari ogni altra forma di attivismo e di prassi politica.
Dovremmo invece sapere che le rotture politiche di tipo rivoluzionario (perché di questo stiamo parlando, ribadiamolo) non possono avvenire senza che vi siano le condizioni di fatto che le rendono possibili.
Ecco uno dei motivi per cui l’indipendentismo ha sempre avuto una debolezza elettorale che non rende giustizia al suo radicamento come aspirazione diffusa.
I partiti dominanti, rappresentanti di robusti interessi egoistici, hanno sempre avuto vita facile con gli strumenti del clientelismo, del ricatto occupazionale, del divide et impera delle forze sociali. Al di là della forza garantita loro dai robusti appoggi esterni.
Per costituirsi come contro-potere l’indipendentismo democratico avrebbe dovuto contrastare tali strumenti (profondamente anti-democratici, non c’è bisogno di sottolinearlo) sullo stesso terreno ma con metodi e azioni diversi.
Tante volte si è preferito “dire” le cose anziché “farle”. E si è preferito chiedere fiducia sulla parola anziché sulla base di esempi virtuosi.
Si è trascurato il livello più immediato della politica, quello locale.
Si è protestato molto contro scelte obiettivamente discutibili e quasi sempre deleterie, ma senza proporre un’alternativa pratica.
Questa sarebbe invece una strada da intraprendere. Fare le cose anziché dirle.
Contrastare lo smantellamento del sistema del welfare con attività di mutualismo. Combattere dispersione scolastica e ignoranza con l’apertura di centri di aggregazione e di scuole autonome. Contrastare l’abbandono della terra con progetti di cooperazione. Sostenere le vertenze dei lavoratori con un quadro teorico e pragmatico più solido delle mere petizioni di principio, studiando meglio e di più le possibili alternative.
Non più costituirsi come avanguardia illuminata in un processo storico di cui essere guide, garanti e controllori, ma diffondere pratiche alternative virtuose e alimentare e sostenere tutte le forze sociali e intellettuali sane nei contesti in cui esistono.
La centralità degli aspetti comunitari e delle appartenenze territoriali, in Sardegna, è ben nota, ma è una lezione che l’indipendentismo sardo sta comprendendo solo in questi ultimi anni. È – o dovrebbe essere – uno dei principali rimpianti e uno dei maggiori motivi di autocritica per l’intero movimento.
Partire dal livello locale e dagli ambiti di lotta concreti avrebbe anche consentito la formazione e il ricambio di una classe dirigente diffusa, capace di autorigenerarsi.
Oggi ci sono le premesse perché succeda e in parte sta già succedendo. Meglio tardi che mai, potremmo dire, ma è tutto ancora da compiere e occorre rifletterci e costruire anche un modello teorico di riferimento.
Il modello del partito o dell’avanguardia illuminata in stile novecentesco, dal canto suo, ha prodotto solo capi e padroncini ossessionati dal controllo e dall’auto-preservazione.
La lezione del confederalismo democratico curdo – come ho già avuto modo di sostenere – potrebbe essere molto utile anche in questo ambito, sia come modello politico e sociale generale (diciamo pure ideologico), sia come modello organizzativo.
Una larga autonomia di base, un decentramento sistematico, una forma di democrazia partecipata e capillare, con al centro i beni comuni e i diritti sociali e civili.
Il contrario di qualsiasi centralismo organizzativo e/o amministrativo, di qualsiasi “dittatura della maggioranza”, di qualsiasi possibile autoritarismo.
Quando Giovanni Maria Angioy scriveva al governo rivoluzionario francese per chiedere il suo intervento a favore della rivoluzione sarda, su una cosa insisteva molto: che non si sognassero di arrivare in Sardegna a dettare legge.
Era un ammonimento chiaro. Vi accoglieremo e vi considereremo dei liberatori fintanto che rispetterete le nostre usanze, le nostre consuetudini, la nostra cultura e le nostre forme di socializzazione. Altrimenti sarete considerati dei nemici e niente potrà ostacolare l’ostilità dei Sardi nei vostri confronti.
Giommaria Angioy sapeva di cosa parlava. Certo, a vedere in che condizioni si è ridotta l’isola due secoli dopo il suo tentativo rivoluzionario, probabilmente si sentirebbe tradito ancora una volta e ancora più profondamente.
Ma il senso del suo discorso è uno di quelli che l’indipendentismo ha colpevolmente ignorato, pur facendo di lui – anche a sproposito, per certi versi – un proprio eroe ed antesignano.
L’approccio settario non paga. Le forme di organizzazione gerarchiche e centraliste non servono a nulla se non a preservare se stesse.
L’atteggiamento paternalista e predicatorio ottiene per lo più un effetto opposto al consenso partecipe. L’ossessione del controllo produce una selezione al ribasso del personale politico e, come effetti generali, disordine e conflitto.
Abbiamo bisogno di tanti, se non di tutti, per arrivare alla meta.
Chi più ha, più deve dare. Chi più sa, più deve spiegare. Bisogna studiare di più, tanto! Bisogna essere meno dogmatici e più scientifici, meno impauriti e più empatici. Bisogna amare la dialettica, non temere il dissenso. E bisogna sporcarsi le mani, non chiedere agli altri di farlo, magari sotto la nostra guida illuminata.
Io non so cosa ci aspetti nei prossimi anni. So però che il mondo in cui esistiamo è un mondo difficile e pericoloso, senza molti riguardi per chi è debole o si fa trattare da debole.
È un mondo che spinge alla chiusura, all’individualismo, all’egoismo e alla paura (del diverso, dello straniero, del povero), e non certo per favorire il riscatto sociale dei poveri e degli impoveriti nostrani.
Ma siamo anche in una condizione in cui ormai abbiamo poco da perdere.
La piena e compiuta realizzazione della democrazia in Sardegna contempla necessariamente la nostra autodeterminazione, nelle forme storicamente possibili.
Il che implica una riflessione attenta sulle forme giuridiche dell’autodeterminazione stessa, sui modi in cui ottenerla e sui contenuti che essa deve avere.
Perché si può anche avere l’indipendenza senza la democrazia, ma non la democrazia senza una prospettiva di autodeterminazione radicale, popolare e partecipata.
Non è una prospettiva accessoria o eludibile, in ogni caso. Questo deve essere chiaro. Sono il come e il quando, che contano, non il se o il perché.